La Pena di Morte (X grado) fra Antropologia ed Esoterismo

MorteNell’esecuzione della pena di morte, confluisce un potente e primario arcano dell’umanità: il dolore della perdita e la sua riviviscenza. Esiste sempre un doppio registro, conscio e reale, della morte come “atto di violenza che risponde alla violenza”. Ci sono i protagonisti: il giudice che coincide con il detentore del potere, il soldato, il boia, la pena, il condannato. C’è poi un livello, sotterraneo e simbolico, che trasforma tutto in simboli dell’umano sentire. La vittima, a mezzo della sacralizzazione della sua morte, si trasforma, non è più vittima/condannato, ma diventa totem della morte e del sacrificio.

Tavola del fr:. F:. C:.

La pena di morte.  Ho affrontato questo tema cercando di uscire dai binari di un percorso classico che, solitamente, si incentra sulla questione etica calata in un contesto storico giuridico della pena di morte.

Ho desiderato parlarvi più dell’atto dell’infliggere la morte, delle pulsioni che sono sottese a questo atto e della struttura sociale che è chiamata all’interno della “tribù”, del “gruppo di uomini organizzati in una struttura” a concorrere a questo atto finale che è, appunto, il dare la morte “volontariamente e con metodo”.

Assistiamo nel rituale del X grado ad un evento di “celebrazione” dell’esecuzione capitale, della morte, nel suo aspetto più teatrale.

Assistiamo ad una vera e propria proiezione, ad una cerimonia attraverso la quale, nell’esecuzione della pena di morte, confluisce un potente e primario arcano dell’umanità: il dolore della perdita e la sua rivivescenza.

Nel dare la morte c’è il controllo di un evento incontrollabile.

Esiste sempre un doppio registro, com’è opportuno quando si parla di esoterismo; c’è un livello che si manifesta, conscio e reale, rappresentato dall’aspetto pragmatico e fattuale della morte come “atto di violenza che risponde alla violenza” secondo uno dei precetti più arcaici, codificati oralmente: la legge del taglione.

Ci sono i protagonisti: il giudice che coincide con il detentore del potere, il soldato, il boia, la pena, il condannato.

C’è un livello, sotterraneo e non palesato, che trasforma e ricopre, con la sua veste simbolica, i medesimi protagonisti della rappresentazione e li spersonalizza, elevandoli a simboli dell’umano sentire.

A livello conscio – che si manifesta e s’incarna nel diritto vigente positivo – il comminare la condanna a morte, è un’azione che si concretizza secondo un pieno rispetto di principi codificati nella legge o nella tradizione orale.

Nella morte che accumuna uomini e animali, l’uomo si distingue dalla bestia nel dare la morte come punizione, svincolata da una necessità (sopravvivenza), da un arbitrio casuale (il destino).

Nel suo aspetto più manifesto la morte esprime un desiderio di giustizia (arcaicamente contenuta nella specie più ampia di “vendetta”).

La sua esecuzione avviene nel rispetto di regole dettate e codificate (per quanto truci comunque riconducibili ad una norma riconosciuta dalla società e non arbitrarie) : “ I quindici, avuti i prigionieri, li condussero alla presenza di Salomone che li giudicò e condannò a rimanere esposti al sole e alle mosche, legati ad un palo, senza cibo né bevande.

Prolungandosi l’agonia dei due miserabili, Salomone volle mettervi un termine, facendo loro mozzare il capo che venne esposto, insieme a quello di Abiram, sulle mura di Gerusalemme.”

In queste poche righe si condensano tanti simboli riconoscibili: la crudeltà della pena inflitta che appartiene ad un antico sentimento di riequilibrio delle energie, “tanto male fai tanto ne dovrai sopportare” , una manifestazione dell’assolutismo del potere nell’inappellabilità della sentenza e, per converso e riequilibrio, la manifestazione in capo a Salomone di un potere ancora più grande, la pietà nella decisione di anticipare ai prigionieri la fine.

Salomone detiene il compasso e la squadra: morale e spiritualità, e ne dosa sapientemente l’uso.

 

***

 

Vi è poi un tessuto sottostante, denso e profondo, antico e sacro, di sacralizzazione del rito della morte.

La vittima, a mezzo della sacralizzazione della sua morte, si trasforma, non è più vittima\condannato, ma diventa totem della morte e del sacrificio più grande, quello della vita: diviene “la vittima sacrificale”  per la grande e più potente delle divinità “la morte”.

Attraverso questo rituale i vivi ripercorrono, in un dramma regolamentato dal diritto positivo, l’episodio originario della morte intesa come momento dell’umanità.

L’esecuzione della pena è il momento in cui si celebra il ricordo ancestrale più potente, la paura della perdita e la sofferenza per la perdita.

La perdita e la sofferenza costituiscono la manifestazione dell’errore originario (la perdita di Hiram)

Nel “dare” la morte, l’umanità si riappropria di un evento che “subisce” come condizione dell’esistenza senza possibilità di controllo, come un evento improvviso il più delle volte, ingiusto sempre.

E’ alla morte stessa che l’atto di uccidere offre un tributo; nel tributo l’uomo ha la sensazione di comunicare con la morte; il controllo della morte come atto estremo nel tentativo di possederla.

Non è peregrino ricordare il rito dell’antropofagia come momento non certo legato alla soddisfazione di un appetito fisico ma piuttosto di un appetito dell’anima di “digerire” il pasto più feroce dell’esistenza, quello della morte.

Nel suo grado più alto, la celebrazione del rito della morte nell’antropofagia, consente alla morte e alla vita di scorrere per un momento così vicine da sembrare un unico “flusso dell’esistenza”, mentre comunemente morte e vita vanno in parallelo verso il futuro: nell’antropofagia vengono uniti per un momento in un’unica strada che è il continuum senza distinzione dell’esistere dell’universo creato; un gigantesco intestino dove tutto viene trasformato.

Il rituale della morte in X è un’esecuzione alchemica, una fusione di due elementi, vita e morte, attraverso l’esercizio lucido e razionalizzato, (la pena inflitta e le sue modalità di esecuzione) e la rappresentazione di un ricordo doloroso, quindi un momento di grande emotività perché attraverso questa morte viene esaltata altra morte, quella originaria, di Hiram.

Se la morte non è un evento controllabile nel suo scorrere, ma manifestazione di irrazionalità dell’umanità, allora dare la morte rappresenta un episodico momento di “controllo” dell’uomo sulla morte.

Il mito della morte di Hiram viene e può venire mantenuto in vita unicamente con continue rappresentazioni simboliche della sua morte dove, sotto l’egida del “diritto”, che impone la giusta punizione per un gesto così orrendo per l’umanità quale è stata l’assassinio di Hiram, egli, viene perpetuato nel suo sacrificio.

E dunque se il “giusto” è l’esistenza di Hiram, la negazione della sua esistenza è la caducazione del mondo nell’imperfezione; da qui il passaggio di proiezione, “per saltum”: “qualunque atto diretto a far trionfare la giustizia o a vendicare la giustizia offesa, è atto compiuto nel giusto e per il giusto”.

 

***

 

Vorrei poi soffermarmi sulla figura del cavaliere e il suo ruolo in tutto ciò.

E’ difficile dire se il desiderio che anima i cavalieri sia di perseguire il giusto o di ricercare la morte per l’ennesima unione ad essa.

Il cavaliere eletto dei XV è il portatore del testimone della giustizia, è lo strumento attraverso il quale, la vendetta, (parola che appartiene solo ed esclusivamente al genere umano), manifesta la necessità di rivedere stabilito l’ordine

Ma il Cavaliere è anche una figura di ponte.

Il cavaliere eletto è traghettatore, colui che si spinge fino al confine, labile, sottile, seducente, lontano, (Gath è un paese straniero di cui non si sa nulla), per riportare, al mondo conosciuto di Salomone, i simboli della morte e dell’irrazionalità affinchè vengano alchemicamente “ricomposti” “ricombinati” attraverso un processo e l’esecuzione della pena di morte.

Un “processo” dunque conclude il viaggio; non a caso la  scelta verbale, è procedimento attraverso il quale tutto deve emergere e venire riportato ad equilibrio, livellato.

Il processo è dunque impostato sulla livella e sul filo a piombo: su un sistema di riferimento, la livella, al fine di salire al trascendente attraverso il filo a piombo.

Salomone è “il giudice” cui spetta la sentenza, da eseguirsi in un ambiente “sacrale e quindi protetto” dove la razionalità del pensiero è già consolidata ed ne permea l’ambiente; quando il reo è affidato alla giustizia, il pericolo è già scongiurato e l’irrazionale è già “congelato” in un ambiente che lo contiene e lo domina; il processo, la sentenza e l’esecuzione, sono ambienti “protetti” “sicuri” dal buio delle tenebre.

Il cavaliere ha il compito più rischioso: quello di entrare, da solo, non protetto, se non da uno strumento\documento, “la richiesta di estradizione”, che per sua logica ha valore solo in un mondo che è riconosciuto ma che nel mondo dell’irrazionale non serve a nulla perché non è riconosciuto.

Il cavaliere è protetto da un ideale e da valori, simbolici e concreti, (l’educazione e le armi) ma gli ideali e l’educazione sono più semplici da rispettare in un mondo che li riconosce, difficili in un mondo che non li riconosce.

Mi sono chiesto, il cavaliere “appare” stolido, preparato, inamovibile, lontano dalla passione del mondo, ma queste caratteristiche corrispondono al Cavaliere persona? Sono di vera utilità al Cavaliere o, piuttosto, sono più utili a noi, ci garantiscono che “colui che noi mandiamo per noi” sia fonte di garanzia per noi, per il nostro sistema?

Siamo noi in realtà a desiderare che il Cavaliere sia, per definizione, “senza macchia”.

Quel ponte che noi lanciamo e che collega il bene con il male attraverso un percorso diretto è presidiato dal Cavaliere che consente al male di arrivare da noi solamente se da lui scortato.

Egli è dunque la linea di confine e presidia la linea di confine.

Il Cavaliere è una figura che cammina dunque sul confine tra la luce e l’oscurità, arriva fino al confine ultimo tra la vita e la morte; al di là dei valori che gli sono stati forniti, egli ha con sé unicamente il Maglio e lo Scalpetto: la forza di volontà e il discernimento, come uniche difese.

Il suo cuore si consuma continuamente perché il male consuma, pretende d’essere nutrito e, come un fuoco quando esaurisce il nutrimento, lascia tiepide braci, cicatrici, testimonianze brucianti dello scontro.

In ogni impresa il Cavaliere deve saper trovare-ricavare il nutrimento per ritornare ad ardere; in ogni impresa il cavaliere muore un po’.

Mentre è possibile “pensare” il bene e il male in termini dicotomici (qui sta il bene e là il male) non è possibile vive queste esperienza nelle medesime modalità e sicurezze;  nel perseguire il bene si può fare del male a se stessi, agli altri, ai principi che ci hanno ispirato.

Tutti noi conosciamo la fascinazione dell’oscuro, del male, ma non sempre siamo disposti a riconoscerlo, non tanto negli altri, ma prima di tutto a noi stessi.

Spesso lo neghiamo per paura di perdere il controllo, perché tutto ci può sfuggire in qualsiasi momento e possiamo perderci definitivamente: per capire il male bisogna diventare male, per capire il bene diventare bene, in una continua lotta; come il cavaliere non dobbiamo avere paura.

Un ruolo pericoloso dove tutto si mescola nell’indistinto della primordialità: l’esercizio della violenza, il contatto con la morte, la preda e il suo inseguitore.

Il Cavaliere dunque accetta la fascinazione dell’oscuro e la persegue senza paura di perdersi.

Il Cavaliere è una figura che non ha paura.

 

F:. C:.

 

28 Maggio 2013 e.v.

 


Cerchi qualcosa?

Utilizza il campo sottostante per cercare nel sito:

Hai cercato qualcosa che non hai trovato? Contattaci e richiedici l'informazione che cerchi!

Link

Ti raccomandiamo di visitare questi siti web