Quid est Veritas?

inserito il 09 04 2024, nella categoria Tavole dei Fratelli

1.    Introduzione

Verità e menzogna in senso extramorale: questo il titolo di uno degli scritti minori di Nietzsche, di poco successivo alla Nascita della tragedia, in cui il filosofo di Basilea inquadra uno dei temi più discussi dalla speculazione filosofica in un’ottica abbastanza originale. Per questo ancora giovane e semi romantico Nietzsche la “verità” inseguita come valore da pensatori e uomini morali è figlia di quella razionalità socratica che ha mortificato i migliori istinti artistici ed estetici dell’umanità. Ad essa si contrappone l’arte tanto apollinea che dionisiaca che invece con le sue menzogne, illusioni, o squarci sull’essenza profonda delle cose ridona pienezza di vita, laddove la “verità” rende il mondo grigio e smorto.

Ora, al di là del fatto che lo stesso Nietzsche cambiò impostazione negli anni circa il problema della verità, il nostro riferimento a lui non era tanto per discutere cosa fosse quest’ultima secondo questo filosofo ma era finalizzato a dare un primo assaggio di quanto la questione sia suscettibile di diverse interpretazioni a seconda del punto di vista.

«Quid est Veritas?», cos’è la Verità, chiede Ponzio Pilato a Gesù quando il Cristo gli si presenta sanguinante e sfinito. Verità… una parola che per un motivo o per un altro tutti abbiamo fatto risuonare con enfasi.

In linea di massima potremmo distinguerne due grandi accezioni: l’una come sinonimo di oggettività, realtà, che pone l’accento sulla componente epistemologica e indica l’aderenza del pensiero o del discorso ai fatti; l’altra invece come sincerità, onestà, che invece entra a gamba tesa nella sfera etico-morale e indica soprattutto un valore umano, la coerenza, la fiducia e il coraggio di assumersi la propria responsabilità.

Per l’uomo il sapere e il discorso vero sono un problema enorme perché da essi dipende non solo la soddisfazione di una astratta curiosità ma anche e soprattutto l’azione: solo se so come stanno veramente le cose posso compiere delle scelte libere e sensate. Religione, politica e media nel corso della storia hanno dato, per contrasto, un esempio eloquente di quanto potere crei una certa rappresentazione della realtà.

Come si pone però la questione ponendoci nell’ottica più propriamente iniziatica, vale a dire quella spirituale, quella che per intenderci obbliga l’uomo a misurarsi con certe questioni senza preoccuparsi della loro eventuale ricaduta pratica immediata? Durante l’iniziazione al IV grado viene raccomandato al futuro maestro segreto di non rendere alcun culto agli elementi e alle cose naturali, di tenere sempre presente la mutabilità dei valori e del sapere nel corso delle epoche ed avere pertanto un unico culto, quello appunto della Verità.

Ma cos’è questa verità? Esiste davvero? Un’unica verità? Non è forse vero che esistono tante verità quanti sono gli uomini che le raccontano? I relativisti che negano l’esistenza della verità perché in fondo ognuno ha le sue proprie convinzioni e tutto dipende dal punto di vista commettono al riguardo però due grandi confusioni: essi riconoscono pari dignità a tutte le opinioni (ma purtroppo, se la scienza ci insegna qualcosa, non tutte le opinioni sono uguali), e in secondo luogo confondono la verità con la sua formulazione e i fatti con le loro interpretazioni. Il padre del relativismo, Protagora, sosteneva che «l’uomo è misura di tutte le cose», frase iconica ma che tuttavia esprime anche un antropocentrismo abbastanza ingenuo, tipico dell’antico mondo mediterraneo, e cioè l’idea che le nostre opinioni costruiscano il mondo; e se questo può essere ancora vero per l’ambito sociale man mano che usciamo dalla nostra sfera propria lo diventa sempre meno: tanto alla più piccola formica che al più colossale buco nero non importa proprio un bel niente del nostro giudizio… l’universo esiste da miliardi di anni e presumibilmente continuerà ad esistere per altri miliardi di anni, forse per sempre e persino in assenza di vita… come si può seriamente credere alla storia che fu Adamo a dare il vero nome alle cose? Siamo gli ultimi arrivati al momento e siamo solo anelli di una catena che continuerà a scorrere dopo di noi.

Certo, va anche detto che nel mitologhema antico le parole non erano solo convenzioni descrittive, erano intese come parole di potenza: in Egitto, nel mondo ebraico, in Scandinavia e chissà in quanti altri luoghi «dare un nome» o «conoscere il vero nome» comportava la possibilità di esercitare un potere magico di comando; il «vero nome» delle cose in magia corrisponde all’essenza profonda delle cose stesse. La differenza fra filosofia e ambito iniziatico rispetto a tutte le questioni è che la filosofia, stante la sua impronta fortemente logica e razionalista, bene o male elabora più o meno esaustivamente la realtà vissuta da tutti quanti noi, laddove l’ambito iniziatico, religioso o in genere spirituale apre prospettive che ai più non sono accessibili; tuttavia non bisogna farsi prendere neanche qui dall’entusiasmo: cose come la dissonanza cognitiva, l’esaltazione, le mistificazioni, gli autoinganni, le aperte manipolazioni sono tristemente cose assai comuni in quest’ambito purtroppo, ecco perché occorrerebbe una grande autodisciplina nell’accostarsi a certi insegnamenti, il rispetto di un religioso ma anche il rigore e lo spirito critico di uno scienziato e lo scetticismo del più intransigente empirista. Maestri che declamano di possedere o incarare chissà quale sapienza nascosta, di possedere poteri eccezionali al di fuori di qualsiasi immaginazione ne sono esistiti anche troppi e fin troppi danni hanno fatto, loro e soprattutto i loro seguaci

Il Maestro Segreto nell’obbligo del silenzio, come l’Apprendista, non trova solo una disciplina di segretezza verso il mondo esterno ma affina il rigore verso sé stesso e la realtà che va a conoscere: voler parlare di qualcosa subito è sempre un reagire e reagire significa impazienza, sia come adesione entusiastica immediata sia come critica. La realtà dell’Essere, inteso come l’insieme di tutto ciò che è, si coglie ascoltando, come insegnava Heidegger… ma l’Essere parla sempre con tono flebile, la sua voce è una melodia di sottofondo che si può udire solo se attorno e dentro sé cessa il baccano. Che prospettive ironiche offre la ricerca: nel percorso buddista è insegnato che uno dei primi passi sulla via dell’illuminazione è “uccidere il demone della dialettica”, laddove invece la nostra filosofia, la scienza insegnano l’importanza proprio del dialogo. Meditare o parlare… Quale sarà la verità?

2.    Il vero epistemologico: esiste una conoscenza oggettiva?

È possibile conoscere il vero? Ma soprattutto cos’è il vero? È palese, nascosto? Per gli antichi la realtà sensibile era per lo più apparenza di forze invisibili che richiedevano una sensibilità particolare per essere percepite ma che non di meno erano avvertite come più “vere” dello spettacolo sensoriale: che si trattasse delle antiche divinità invocate da sciamani sacerdoti o aedi, degli spiriti degli antenati o della natura, delle “idee” platoniche, dell’Essere parmenideo, il Logos di Eraclito, i numeri di Pitagora e così via il minimo comun denominatore rimaneva la sussistenza dietro e oltre lo spettacolo dei sensi di una realtà intelligibile ma invisibile che nelle sue leggi, regolarità e razionalità era la vera essenza nascosta del mondo e il mondo sensibile solo illusione e spettacolo dei sensi. Persino posizioni scettiche, relativiste e materialiste non si allontanavano realmente da questa impostazione: sofisti come Protagora o gli scettici negando la possibilità di un sapere vero e oggettivo in fondo andavano a invalidare anche l’idea che la realtà fosse quella che i sensi percepiscono.

Nel Medioevo il problema della verità si spostò sul terreno della contrapposizione fede/ragione: la religione cristiana prima, e quella musulmana poi, sono state un unicum nella storia per quanto concerne l’importanza del dogma, mai altre religioni del mondo avevano avvertito la necessità di imbrigliare così tanto il pensiero affinché fosse coerente con le verità di fede. Le varie religioni del mondo sono state per lo più ortopratiche più che ortodosse, i taboo riguardavano riti, culto, festività e regole etiche e morali ma non avevano avvertito la necessità di soffocare in modo tanto sistematico la ricerca del sapere alternativo. Il politeismo ha spesso visto un proliferare di dottrine e insegnamenti concorrenti, diverse versioni degli stessi miti, nonché approcci diversi al divino e alla realtà. Il monoteismo cristiano e musulmano, come quello ebraico, nella loro lotta secolare contro la precedente cultura pagana hanno profuso ogni sforzo per dare un carattere di razionalità, coerenza logica e sistematicità ad una serie di miti e di storie in tutto identiche a quelle dei loro avversari ma che a tutti costi dovevano essere presentate come verità storiche, rivelate una volta per tutte, indiscutibili. Se per i Greci i miti erano “storia”, ma pur sempre racconti rielaborabili e simbolici, per Ebrei, Cristiani e Musulmani la Bibbia e il Corano erano fonti di una verità letterale e incontestabile anche se l’ostinazione con cui si parla di ragione ancella della fede o il tentativo di trovare un compromesso tra ragione e fede è spia del fatto che forse tutto sommato quel Medioevo animato dalla fede proiettava un’ombra non da poco di sano scetticismo.

Umanesimo e Rinascimento hanno spostato la ricerca dalla metafisica e dalla teologia all’uomo e alla natura, riprendendo dottrine neoplatoniche ed esoteriche e postulando l’esistenza di forze misteriose e divine che agiscono dietro i fenomeni in una natura qualitativamente determinata e intelligibile nei suoi poteri, verità che si potevano provare empiricamente: si trattò infatti di un’epoca in cui la magia e le scienze occulte proliferarono.

L’era moderna, tra Galileo, Bacone, Cartesio, Leibniz e Spinoza vede affermarsi una concezione meccanicistica, riduzionista e razionalista della realtà. Nell’epoca delle guerre di religione tutto fu ridotto a una serie di regole e principi elementari conoscibili da tutti mediante la Ragione, ovverosia il buon senso dell’uomo medio. Con l’Illuminismo Ragione e empirismo si fondono scacciando la fede una volta per tutte dal piedistallo epistemologico. Con Kant la stessa facoltà conoscitiva, la Ragione, viene sottoposta a critica, si autogiudica in tribunale e viene messa nuovamente in risalto la distinzione tra fenomeno e noumeno, la cosa per come viene percepita dal soggetto e la cosa in sé, negando la possibilità di una conoscenza effettiva di quest’ultima.

L’idealismo riprende e sviluppa in chiave spirituale e metafisica le idee di Kant arrivando a ipotizzare vere e proprie evoluzioni dell’Io, dello Spirito, vedendo nella realtà fenomenica una manifestazione frammentaria di quest’ultimo.

Col Positivismo la materia assurge al rango di unica realtà, la scienza sperimentale e quantitativa a unica forma possibile del sapere.

Ma poi qualcosa cambia… Su un terreno preparato da altre correnti e autori sopraggiungono nella storia del pensiero i tre “maestri del sospetto”. Nietzsche nega l’esistenza di una verità “oggettiva” specie nell’universo dei valori, atteso che ogni verità è la manifestazione della volontà di potenza di chi l’afferma, per cui ognuno interpreta il mondo in funzione di ciò che lo valorizza e lo realizza: non solo i valori morali, ma anche la scienza della natura è prospettica, le verità scientifiche sono comunque frutto di un’interpretazione funzionale ad affermare certi valori. Marx riconosce il carattere derivato della conoscenza umana: tutto è frutto delle condizioni materiali ed economiche della civiltà di riferimento, le verità della filosofia, della morale, della scienza persino sono un problema economico-politico prima di ogni cosa: la stessa scienza può essere capitalista o socialista e solo la prassi stabilisce con lo sviluppo tecnologico e il progresso da un lato e l’evoluzione del sistema economico dall’altro il vero senso del mondo e della storia. Per Freud infine l’Io non è più padrone in casa propria: lungi dall’essere quel soggetto fatto di ragione e buon senso, quella tabula rasa immaginata da Cartesio o quella sorta di diagramma conoscitivo supposto da Kant, l’Io è solo una parte della più complessa psiche dell’uomo determinata da una serie di elementi inconsci che ne vanno ad alterare la percezione della realtà.

Niente fu più lo stesso dopo di loro ma il vero punto di rottura fu costituito dal Positivismo. In ambito epistemologico tutta la diatriba sulla verità tra Ottocento, Novecento e tutto sommato anche oggi, è una lotta tra positivisti più o meno raffinati e antipositivisti.

Tra il vitalismo di Bergson, la Fenomenologia di Husserl, il Neoidealismo di Croce e Gentile, la filosofia di Heidegger, l’esistenzialismo e l’ermeneutica le differenze sono enormi ma permane un elemento comune: si critica la possibilità per la scienza positiva di dire l’ultima parola su cosa siano l’uomo e il mondo. Sono tutte voci di un’epoca in rivolta contro il Positivismo, un’epoca “affamata di spirito”, che dopo la “morte di Dio” ha cercato altrove il senso delle cose, oltre la religione, oltre l’arida scienza.

I filosofi della scienza, Popper, i Neopositivisti, Wittgenstein, gli analitici anglosassoni, i pragmatisti americani e i marxisti dal canto loro hanno sicuramente rimodulato moltissimi dogmi del Positivismo ma ne hanno mantenuto la visione di fondo, e cioè che l’unico mondo vero sia quello verificabile (o falsificabile) attraverso il metodo scientifico.

All’apertura del nuovo millennio una serie di tendenze opposte sembra agitare le acque della consapevolezza postmoderna: da una parte il progresso scientifico e tecnologico inarrestabile sembra tra alti e bassi confermare le previsioni ottimistiche del prometeismo baconiano della prima modernità: la scienza sperimentale forse non potrà dire tutto ma i risultati che produce sono pragmaticamente la dimostrazione della sua validità; dall’altra un sempre più marcato scetticismo, un bisogno di ricerca di valori e prospettive spirituali ha spinto sempre più l’Occidente materialista a guardare all’antico e all’Oriente: dal vitalismo alla New Age, dal Neopaganesimo al Perennialismo, dalla diffusione di nuove religioni e sette a una psicologia sempre meno “scientifica” e sempre più speculativa e spirituale, sono tanti i segni di un mondo che cerca un significato più profondo al di là di “fatti, dati e numeri”. Ecco, forse ciò in cui la scienza è realmente manchevole è nel rispondere alle domande sui perché: il successo di psicologie filosofiche come la psicoanalisi deriva dal fatto che, veri o meno che siano i suoi postulati, esse riescono a fornire un’ombra di senso, una parvenza di significato alla vita umana, laddove la psicologia più vicina alle scienze esatte, compresa quella cognitivo-comportamentale si arresta a un fenomeno arido e privo di senso, vede l’io come un fenomeno meccanico, soggetto alle regole di una pura causalità.

Il breve riepilogo delle principali correnti del pensiero occidentale ci può tornare utile in questo senso: colta l’importanza di stabilire ciò che è vero si possono distinguere grossomodo questi gruppi principali di posizioni: c’è chi afferma che la verità esista e sia conoscibile e comunicabile, chi invece ritiene che essa se pur esista non sia in fondo realmente conoscibile. Per alcuni solo ciò che può essere provato empiricamente e scientificamente può costituire oggetto di un discorso vero, tutto il resto essendo solo fantasia e speculazione; per altri la realtà sensibile non esaurisce il mondo, bisogna mantenersi aperti rispetto alla dimensione del mistero, dell’invisibile, dello spirito, anche perché i più profondi problemi umani hanno più a che fare con questo piano che non con ciò che la scienza naturale può illuminare: in un certo senso è questo il limite di visioni come il pragmatismo e il marxismo, alla fine riducono tutto a un problema materiale.

 Il postmoderno è un’epoca complessa e dalla sensibilità complessa: il maggior senso storico, l’informazione diffusa, il dialogo e il confronto di idee rendono la nostra epoca un’epoca effettivamente della complessità: il postmoderno differisce dal moderno perché ha abbandonato le soluzioni univoche, la necessità riduzionista di ricondurre il tutto a poche risposte, proposizioni o principi semplici. Se il moderno è stato l’epoca delle specializzazioni del sapere e dell’azione, il postmoderno è l’era della multidisciplinarietà, del sapere trasversale e delle competenze multilaterali. Chi oggi si pone il problema della verità non ragiona più in termini o scientifici, o religiosi o psicologici ecc. ma in termini e scientifici, e religiosi, e psicologici. La nostra è una modernità liquida per dirla alla Baumann ma questo significa che stanno crollando le separazioni rigide, i confini artificiali, le barriere tra saperi e prospettive: liquidità è fluidità, è mobilità, possibilità di fondere e amalgamare.

Chi cerca la verità oggi può ragionare in termini di complessità e non di riduzionismo. La verità è interpretazione innanzitutto, ed è interpretazione di un mondo complesso e sfaccettato che ha più livelli di realtà che richiedono sensi e competenze diversi per essere conosciuti.

L’esperienza sensoriale non può dar conto di tutto ciò che è, perché è da migliaia di anni che siamo consapevoli della limitatezza dei nostri sensi, ma quei sensi ci danno una conoscenza della realtà in termini di esperienza che nessun’altra facoltà ci può dare: limitati ma reali, diretti; ricordando un vecchio esempio, un conto è farsi descrivere un colore, un suono, un paesaggio, un sapore, un profumo, un conto è farne esperienza diretta. Forse è per questo che molte discipline spirituali raccomandano poi un ritorno ai sensi esterni e interni per riprendere un contatto diretto con la realtà che non sia solo teorico ma concreto.

Oltre i limiti dell’esperienza sensibile abbiamo gli strumenti del pensiero e del sentimento. Il pensiero logico è ciò che ha fondato la matematica, le scienze, che ha dato senso e coerenza a un mondo apparentemente casuale e incoerente. Con le sue teorie e conoscenze astratte ordina, sistematizza, cuce gli elementi del reale, scopre le regole e le leggi che governano il mondo, permette di individuare schemi nei fenomeni e di conseguenza prevederne gli sviluppi. E tanto più il pensiero è rigoroso, come in ambito scientifico, tanto più la conoscenza ha fondamenta solide, esce fuori dal dominio della semplice opinione, della soggettività. Il pensiero logico, unito all’empirismo, quindi il pensiero scientifico rigoroso è una sicura fonte di conoscenza della realtà, tra l’altro sempre aperto ad aggiornamenti e correzioni, mai assoluto, mai definitivo.

Ma la logica, che è essenzialmente coerenza tra premesse e conclusioni dal punto di vista interno e tra idee e fatti dal punto di vista esterno, non può dare conto di certi aspetti della vita che non sono altrettanto coerenti. Si pensi al dominio dei sentimenti, della morale, dell’arte: la logica che li governa è coerente solo fino ad un certo punto. Emozioni e sentimenti hanno una forte connotazione irrazionale, non sempre si possono spiegare in modo coerente; l’arte, la fede, la morale vivono di valori e significati non sempre verificabili, le loro verità non si possono misurare o mettere alla prova in laboratorio. Voler ridurre l’amore, ad esempio, ad un problema biochimico di dopamina, serotonina e ossitocina non è solo triste è anche e soprattutto metodologicamente sbagliato. Il passaggio dalla fisica alla biologia, quindi dalla meccanica alla vita apre alla dimensione animica: la conoscenza qui richiede una capacità empatica, psicologica in senso lato, che coglie la coerenza di ciò che si sente piuttosto che dell’arido pensato, che si avvede del fatto che non tutto risponde al principio finalistico o a quello causalistico. Non si possono comprendere gli aspetti sociali, politici, economici, psicologici, artistici, morali e religiosi dell’esperienza umana senza questa sensibilità e in fondo anche la realtà della vita biologica sarà colta solo superficialmente: Lorenz e l’etologia hanno dimostrato e dimostrano ogni giorno sempre meglio come il mondo animale sia molto più di quell’universo di automi istintivi che immaginava Cartesio o di quelle creature inferiori prive di intelletto che hanno immaginato gli antichi. Le nostre ricerche con gli animali e lo sguardo curioso e senza pregiudizi su di loro ci dimostrano che, anche in base alla specie ovviamente, le creature non umane hanno una loro intelligenza, una dimensione affettiva, ricordi, provano emozioni, amano, possono essere traumatizzate, piangono i loro morti, alcuni come gli elefanti li seppelliscono persino e li commemorano, possono persino andare oltre i loro istinti basilari come le leonesse che hanno allattato cuccioli di antilope (il che rende la leggenda di Romolo e Remo o storie come Tarzan e Il libro della giungla più verosimili di quanto non si sarebbe detto a prima vista). Ma anche il sentimento, come la sensibilità e il pensiero logico, ha i suoi limiti in ordine all’epistemologia, il cui esempio più lampante è la fede. Il dogmatismo delle tre grandi religioni abramitiche, fondato sulla fede, fa leva proprio sugli aspetti sentimentali della natura umana: sostituire alla teurgia, alla teofania la fede, fare della realtà divina e spirituale un problema di credenza significa confondere il piano spirituale con quello animico, l’acqua col fuoco, significa aggirare il problema dell’incoerenza logica di certe verità e delle conseguenti pretese mediante la forza del credo. La fede, diceva giustamente Nietzsche, è la morte dell’intelligenza. Credere ciecamente a dispetto di qualunque prova contraria, soffocare il proprio spirito critico significa limitarsi nella sfera dell’ignoranza e del pregiudizio; e il nostro Medioevo e l’epoca moderna con la religione, il Novecento con le ideologie politiche e l’epoca attuale col fondamentalismo danno un esempio evidente di cosa significhi lasciare al sentimento le redini della conoscenza e dell’azione.

E poi c’è un altro senso, più sottile, più fumoso, elogiato da tanti ma in fondo incompreso dai più, l’intuizione, il sapere immediato e istintivo qualcosa che non è materialmente presente. Quando si rivolge al mondo esterno è una percezione più o meno definita delle possibilità di sviluppo delle situazioni: è quella sensazione viscerale che spinge certi uomini d’affari a investire in un certo progetto piuttosto che in un altro, ai talent scout di “vedere” il potenziale di un ragazzino in ambito sportivo o artistico, allo scienziato di cogliere all’improvviso la soluzione di un problema apparentemente irrisolvibile, al rivoluzionario di immaginare un mondo diverso da quello conosciuto. Quando si rivolge all’interno l’intuizione permette di conoscere sé stessi e il mondo sub specie interioritatis: immagini, metafore, simboli, prendono il posto del discorso speculativo e analitico; così l’Essere viene colto nella sua unitarietà perfetta come una sfera, la divinità nella sua perfezione è come un triangolo, concetti complessi appaiono nella forma di personaggi, figure di carte da gioco, metalli, pianeti, numeri, dadi e chi più ne ha più ne metta. Un evento traumatico scatena l’immagine interiore di una percossa, l’amore viene avvertito come una freccia che trapassa il cuore, l’energia dell’universo appare come una melodia musicale. È il senso del mondo spirituale, religioso e iniziatico nello specifico, il linguaggio stesso del simbolo, ma trasversalmente attraversa anche gli altri campi prima descritti. L’intuizione non afferra una realtà materiale anzi coglie l’invisibile, il noumeno dietro il velo di Maya; non è logica, è una consapevolezza che prescinde dal ragionamento, dalla catena premesse-conclusioni; non è un problema di emozioni, perché anche se quelle percezioni possono anche attivare delle emozioni ma prima di ogni cosa sono percezioni allo stesso livello di una visione, dell’ascolto di un suono e così via. A dispetto della sua bellezza e della sensazione di certezza che dà, tuttavia, anche l’intuizione ha i suoi limiti, simili in sostanza a quelli dei sensi fisici: come la realtà restituita da questi per quanto concreta è pur sempre filtrata dai loro limiti, così l’intuizione non coglie realmente la cosa in sé nell’invisibile ma l’immagine proiettata nell’inconscio: quando coglie la contraddittorietà della vita come il dio Dioniso essa coglie un’immagine dell’idea con tutto il potenziale ma anche i limiti del caso. L’intuitivo che esaltato dal potere della sua intuizione non impara a integrare le altre facoltà di cui sopra rischia di non saper più distinguere la realtà fenomenica dalle immagini che sopraggiungono alla sua coscienza: correrà allora il rischio di perdere il contatto con la realtà, di vivere in un universo simbolico e significativo ma privo del senso delle proporzioni, come certi asceti, santi, predicatori apocalittici o leader politici invasati. E prima o poi la realtà restituirà lo scarto tra il modello sintetico contenuto nell’immagine ideale, nel simbolo, e il corso ordinario degli eventi: profezie mai adempiute, guerre date per vinte e poi irrimediabilmente perse, grandi scoperte rivelatesi poi fallaci ecc.

In conclusione possiamo dire che se il mondo è complesso, la verità attorno ad esso è complessa, le vie per accedere a questa verità sono molteplici, tutte utili e nessuna sufficiente. Ognuna permette di cogliere un certo aspetto della realtà ma occorre l’ausilio delle altre per una comprensione quanto più completa possibile. Oltre a ciò non bisogna dimenticare l’importanza del dialogo. La comunicazione, la condivisione di esperienze e conoscenze ci permette di ampliare i nostri orizzonti, di partire dove altri erano arrivati prima di noi. Il segreto del circolo ermeneutico è proprio questo: sapendo di non essere tabulae rasae, ognuno di noi si accosta a ogni cosa con una serie di pregiudizi, ma il confronto umile, curioso e aperto, realmente dialogico, permette di mettere in discussione questi pregiudizi per confermarli o negarli o integrarli. Andrebbe superata nel dialogo la dimensione agonistica della dialettica, perché il fine del dialogo dovrebbe essere ritenuto il vero sapere piuttosto che la vittoria della propria opinione su quella degli altri; occorrerebbe a tale scopo uno spirito di umiltà e abnegazione che spesso manca nella dialettica battagliera che dà voce al pavoneggiarsi egocentrico.

Nello stesso tempo va tenuto presente però che non tutto è comunicabile, che esistono cose in questo mondo che le parole non possono trasmettere, che possono essere oggetto di una vera comunicazione solo tra persone che le hanno già realizzate da sé o hanno il potenziale di farlo.

Non abbiamo avuto modo di approfondire alcuni punti della nostra riflessione a nostro giudizio significativi come il rapporto fra arte, soggettività e oggettività, oppure il problema etico del relativismo morale, e ancora soprattutto la possibilità in ambito iniziatico di giungere a un tipo di conoscenza reale differente rispetto all’ordinario.

Speriamo di avere occasione di poter tornare sul tema in lavori futuri arricchiti dall’esperienza e dal confronto con i Fratelli.

G:.M:., IV° R⸫S⸫A⸫A⸫


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