Interventi Convegno “Vita e Morte” del 04-02-2023 – Collegio MM.VV. Emilia Romagna

inserito il 23 06 2023, nella categoria Tavole dei Fratelli

Gli interventi dei Rispettabilissimi MM.VV. che hanno impreziosito la giornata di approfondimento al tema “Vita e Morte” Organizzato dal Collegio Circoscrizionale dei MM.VV della Regione Emilia Romagna.

“Il mutare della vita”

La parola “mente”, evoca il pensiero e le idee, ma è anche la terza persona
dell’indicativo presente del verbo “mentire”: egli mente. Deriva da mendacium: inganno, falsità. In altre parole, cari Fratelli, la nostra mente
spesso e volentieri ci mente. Ad esempio, a noi che siamo qui seduti, sembra di essere fermi, immobili. Ed invece ci stiamo muovendo ad una velocità supersonica. Infatti, il pianeta (dal greco planetes: vagante, errante) Terra su cui ci troviamo ruota sul suo asse a circa 1700 km all’ora, nel frattempo orbita attorno al sole ad oltre 100.000 km all’ora e contemporaneamente attraversa la Via Lattea, che a sua volta si muove verso la galassia di Andromeda, alla velocità di 600 km al secondo.

La Via Lattea e Andromeda fanno poi parte del cosiddetto “Gruppo Locale”, che comprende più di 80 galassie, tra cui le tre maggiori sono: le due suddette, oltre a quella del Triangolo. Le altre, di minori dimensioni, per questo motivo sono dette nane. Ma anche il “Gruppo Locale” si sposta,
muovendosi verso la Costellazione del Leone, alla velocità di circa 370
km al secondo. In sostanza noi siamo perennemente in viaggio su una astronave, che è il pianeta Terra, in un continuum spazio–temporale, l’Universo o, secondo le ultime scoperte della Fisica, il Multiverso. Ancora meglio in un cosmo, ordinato (ad eccezione di una miriade di asteroidi vaganti) il cui movimento è fondato su regole matematiche.

E questo si che è un miracolo! Miliardi di corpi celesti non si scontrano tra di loro. Ognuno prosegue per la sua rotta, che non collide con quella degli altri. Ed il tutto è in perpetuo movimento. E’ la natura, il creato, che è fondato su proprie leggi (Bernardino Telesio, 1509-1588: “De rerum natura iuxta propria principia”). Nessun Dio, nessun demone può influenzarlo. La natura, quindi, è movimento e le sue leggi sono le leggi del moto. Ma nulla si genera dal nulla, perciò Giordano Bruno (1548-1600) ipotizzerà l’esistenza di un pensiero generatore della materia.

Un’intelligenza superiore causa e principio dell’intero universo. Per Bruno la materia è animata e l’universo è un grande organismo vivente. Dio è in tutto e tutto è espressione di Dio. Una visione panteistica che afferma l’esistenza di una pluralità di mondi e di un’universo infinito privo di centro e di periferia. Bacone (1561-1626) pubblicherà successivamente, nel 1620, il “Novum Organum”, contrapponendolo all’ “Organon” di Aristotele e rivolgendo la sua attenzione all’esperienza particolare per giungere da questa, ad ipotesi universali. “Scientia est potentia”, affermerà. Errando!

Perché l’uomo non potrà mai a soggiogare la natura, né modificarne le leggi. Galileo (1564-1642), invece, nel suo: “Dialogo sopra i due massimi
sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano”, esporrà quali sono i principi fondamentali della fisica (inerzia, composizione del moto e relatività), introducendo il nuovo “metodo scientifico” e affermando che: “La natura è un libro scritto in caratteri matematici” e l’uomo non potrà mai conoscere la causa prima di un fenomeno, ma dovrà limitarsi solamente ad indagare ed analizzare “come avviene”. Soprattutto dimostrerà sperimentalmente la fondatezza delle intuizioni di Giordano Bruno, dandone giustificazione e spiegazione. Galileo Galilei, dunque, sapeva mentre Giordano Bruno credeva. Ed infatti per testimoniare la verità delle sue tesi Bruno dovrà immolarsi come fecero i martiri cristiani, mentre Galileo, forte delle dimostrazioni scientifiche delle sue tesi, poté limitarsi ad abiurare, terminando la sua dichiarazione con la celebre affermazione: “eppur si muove”. Newton (1642-1727) affermò l’esistenza della legge di gravitazione e di un mondo fatto di numeri e di atomi, che si muovono nel vuoto guidati da precisi meccanismi. Il cui linguaggio universale è la matematica.

Una visione meccanicistica-materialistica del reale affermatasi in contrapposizione alla fisica aristotelica, basata unicamente su una logica
speculativa e astratta, che prevedeva l’esistenza di stelle fisse e la tendenza
dell’universo alla quiete. Se non che, nel XX secolo, anche la visione del professore di Cambridge venne demolita da nuove scoperte. All’interno dell’atomo c’è vita e movimento, esistono particelle composte non di materia bensì di energia (“ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli della cosa una” – sosteneva Ermete Trismegisto nella sua Tabula Smaragdina). E’ la nuova meccanica detta quantistica perché basata sullo studio dei quanti: quantitativi energetici presenti in ogni singola particella di materia. La ragione, con approfonditi studi e ricerche è arrivata a dimostrare verità che erano solamente di fede. Ora, dopo secoli di dolorose contrapposizioni, appare chiaramente che Ragione e Fede sono, invece, le due ali che, tra loro collaborando e non contrapponendosi, permettono all’uomo di progredire sulla via della conoscenza. La più celebre delle formule matematiche, E=MC2, ci aiuta a capire. Esiste, ed è provata, una correlazione tra materia e energia. La materia è solamente uno stato dell’energia; è energia allo stato solido. Se spezziamo l’atomo liberiamo un’enorme quantità di energia, viceversa stando alla formula di Einstein occorre tantissima energia per ottenere minuscole particelle di materia. L’universo comincia a sembrare più simile ad un grande pensiero che non ad una grande macchina. Nel creato c’è, lo dimostra la matematica, una continua mutazione di stato tra energia e materia. Eterna non è la vita, né la morte. Di eterno c’è solo il mutare, il passaggio dell’energia da uno stato all’altro, che dobbiamo accettare come una legge di natura ed a cui dobbiamo soggiacere. Un continuo cambiamento per giungere ad una perfetta armonia in cui, placandosi, si fondono gli opposti. Ma cosa è stato creato per primo? E’ la materia che crea l’energia o l’energia che crea la materia (animata)? Per Giordano Bruno è il pensiero che genera la materia. E se è il pensiero che genera la materia, esso, producendo vibrazioni che si innestano nel nostro quotidiano, genera la realtà modificandola, specialmente quando è sostenuto da emozioni e visualizzazioni. Di conseguenza, cari Fratelli possiamo essere padroni del nostro destino, creando il nostro mondo, giorno per giorno. “Dimmi i tuoi pensieri e ti dirò il tuo futuro” sostenevano gli Antichi. Il pensiero determina il nostro agire. Con il pensiero corretto, disciplinato ed indirizzato al meglio possiamo fare tanto bene e non solo nella nostra vita, ma anche in quella di chi è vicino a noi. E perciò agiamo generando gioia ed entusiasmo, anziché confusione e paura. Possiamo liberare molte menti spesso prostrate da schiavitù psicologiche e spesso volontarie e poiché “ogni stagione dà i suoi frutti” e quello dell’età matura è la saggezza, gettiamo il cuore oltre l’ostacolo ed, in attesa dell’ineluttabile, viviamo quietamente in fraternità, applicando quanto i nostri “Antichi Doveri” ci dettano, perseguendo il nostro fine ultimo e cioè costruire quotidianamente un mondo più felice, più libero e più giusto.
A.G.D.G.A.D.U.
Fr:. Marco Corradi

Onorare la propria vita (nel pensiero della morte)


Apparteniamo ad una Istituzione iniziatica, che si ispira ad alti valori: adeguarsi e mettere in pratica quei valori, è un modo per onorare la propria vita. Trecento anni fa, nel febbraio del 1723, venivano pubblicate a Londra Le Costituzioni dei Liberi Muratori, note come costituzioni di Anderson. Nella parte relativa ai Doveri si precisa che possono essere “ammessi in una Loggia solo uomini buoni, sinceri… e di buona reputazione”. Nel paragrafo sesto dei Doveri, vengono date numerose prescrizioni in ordine al comportamento del massone, quando è in loggia, quando è tra i fratelli e quando è con i profani. Come noto gli Antichi Doveri fanno parte integrante delle regole che disciplinano la Massoneria del Grande Oriente d’Italia. Nei principi che regolano la identità del GOI, si dice testualmente che “La massoneria stimola la tolleranza, pratica la giustizia, aiuta i bisognosi, promuove l’amore per il prossimo e ricerca tutto ciò che unisce fra loro gli uomini ed i popoli per meglio contribuire alla realizzazione della fratellanza universale” All’art.1 della Costituzione del GOI si dice che la massoneria intende al perfezionamento ed alla elevazione dell’Uomo e dell’Umana Famiglia; all’art 9 vengono elencati i doveri dei Liberi Muratori e tra questi viene ribadito che i massoni sono tenuti ad operare effettivamente alla propria elevazione morale, intellettuale e spirituale.
Nel rituale di iniziazione al grado di apprendista, vengono esplicitati i principi etici che regolano la massoneria e cioè la libertà, la morale e la virtù. In particolare viene ricordato che la morale guida ogni uomo intelligente e libero, ci fa apprendere i nostri doveri e l’uso ragionato dei nostri diritti, mentre la virtù induce ad adempiere, in ogni occasione, ai doveri del proprio stato, nei confronti della società e della famiglia.
Alcuni doveri infine sono chiaramente individuati e comunicati verbalmente e direttamente all’iniziando. La virtù praticata all’interno dell’Ordine muratorio significa anche soccorrere i fratelli, alleviare le loro disgrazie, assisterli con consigli e con affetto. Quasi al termine della cerimonia, dopo che il candidato ha compiuto il quarto viaggio simbolico, il Maestro Venerabile dice testualmente: “Possa il vostro cuore infiammarsi d’amore per i vostri simili: possa questo Amore improntare le vostre parole, le vostre azioni, il vostro avvenire. Non dimenticate mai il precetto universale ed eterno: Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te e fa agli altri tutto il bene che vorresti che gli altri facessero a te”. Nella formula della Promessa Solenne il candidato si impegna al proprio perfezionamento interiore, a considerare sacra la vita, la libertà, l’onore e la dignità di tutti e di difendere chiunque dalle ingiustizie, ad adempiere fedelmente i doveri ed i compiti relativi alla propria posizione nella vita civile. Mentre il neofita viene cinto con il grembiule, il Maestro Venerabile gli ricorda che il grembiule è simbolo del Lavoro, primo dovere e massima consolazione dell’uomo. Nel consegnargli i guanti bianchi, lo invita a non offuscarne mai il candore, perché le mani di un Libero Muratore devono restare sempre pulite. Nei rituali dei successivi gradi di compagno e di maestro, i principi etici già esplicitati, vengono ulteriormente ribaditi. Nella nostra Istituzione un profano inizia la vita iniziatica nel Gabinetto di riflessione con un viaggio che è il primo dei quattro che lo porteranno dalla morte dello spirito ad una sua rinascita. E’ comune in tante culture e tradizioni considerare il corso della vita come un viaggio. Dante ha compiuto un importante viaggio e, a testimonianza, inizia la sua opera con il verso “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Ma come termina un viaggio, così termina la vita. Il termine della vita è la morte. Anzi la morte è la naturale conclusione di ogni processo di vita; vale per gli umani, gli animali, i vegetali. Ciò che non muore, non vive. Un sasso, che non vive e non muore, è eterno. A volte nei monasteri si incontra l’immagine di una scritta latina con le parole “Memento mori”, Ricordati che devi morire. La frase è usata spesso anche ai nostri tempi come una esortazione a ricordare sia la fugacità della vita e dei suoi piaceri sia la ineluttabilità della morte. In questo mese nella tradizione religiosa cristiana vi è il rito del mercoledì delle ceneri, con cui si dà inizio alla quaresima, un periodo liturgico penitenziale, in vista della celebrazione della Pasqua. Nell’atto liturgico del mercoledì, il celebrante pone su capo del fedele religioso un poco di cenere pronunciando la formula “Ricordati che sei polvere ed in polvere ritornerai” (frase ricavata dal testo biblico Gen 3,19), per ricordare la caducità della vita terrena. Ma è proprio dalla brevità e caducità della vita che sorge la riflessione sulla morte e sulla vita. Il grande filosofo Epicuro diceva che non bisogna temere la morte, perché quando ci siamo noi, lei non c’è, e quando c’è lei non ci siamo più noi. Il poeta latino Orazio ha usato la locuzione, poi divenuta proverbiale, “Carpe diem”, ovvero afferra il giorno, cogli l’attimo, da intendere non come ricerca del semplice piacere o divertimento, ma come invito ad apprezzare ogni giorno i beni offerti dalla vita. E’ proprio il pensiero della morte, e quindi della fine della vita, che rende fondamentale il valore che si dà alla vita, cioè a questo breve viaggio terreno della esistenza umana. La vita non è semplicemente un fatto biologico, e questo ci distingue dalle forme animali e vegetali, perché l’uomo ha la consapevolezza di sé e della sua vita. Quale valore noi diamo alla vita, alla nostra vita? Quale ricordo possono avere gli altri ( siano essi i familiari, gli amici, i conoscenti, gli estranei), della vita che abbiamo vissuto? Ecco che l’impegno assunto come massoni al proprio perfezionamento interiore, a rispettare l’onore e la dignità di tutti, a difendere chiunque dalle ingiustizie, assume un valore universale, che dà senso al viaggio della vita e la rende degna di essere vissuta. A volte si usa la locuzione “una vita specchiata”, per indicare una vita irreprensibile, che non può essere oggetto di critiche. E’ il simbolismo dello specchio; lo specchio mostra tutto, non inganna, fa vedere in maniera chiara ciò che corrisponde al vero. La morte pone fine alla vita. La vita vissuta, il viaggio intrapreso e concluso, cosa mostra nello specchio? Vi è stata corrispondenza tra parole e azioni, tra impegni e adempimenti?
E’ la riflessione sul fine vita, che ci orienta e ci aiuta nel percorso cosciente per far sì che la vita sia sacra e degna di essere vissuta ed onorata.
Fr. Italo Comelli

La vita introspettiva

Innanzitutto ringrazio il Presidente e la Giunta tutta del Collegio dei Maestri
Venerabili della Regione Emilia-Romagna per l’invito che mi hanno gentilmente rivolto e cioè di parlare della Vita interiore nella speranza che questa mia breve trattazione risulti gradita. Con il termine INTROSPEZIONE, comunemente, si intende un atto della coscienza che consiste nell’osservazione diretta ed analisi della propria interiorità rappresentata da pensieri, sentimenti, desideri, pulsioni, stimoli
prodotti dal pensiero stesso ,come pure il senso della identità di una persona. In altre parole è il processo di osservazione di fatti di coscienza ,onde il soggetto riflettendo e meditando sulle proprie esperienze assume se medesimo come oggetto di studio acquisendo così consapevolezza di se stesso, del mondo esterno con cui è in rapporto, della propria identità e del complesso delle proprie identità interiori. La metodica utilizzata in questa autoanalisi è fondamentalmente di due tipi:

A) la analisi razionale e puntuale, legata al puro raziocinio solidamente ancorata su fatti e comportamenti

B) la meditazione, che più vicino a fatti astratti può giungere fino alle vette
vertiginose della più pura intuizione. Questi due aspetti della azione introspettiva che divengono parte integrante della vita, e che molte volte si confondono l’un l’altro, se praticati frequentemente, portano ad una maggiore e più profonda consapevolezza dell’io più profondo.

Gia in passato affrontai questo argomento e ciò avvenne in risposta alla
esortazione che ricevetti da un Fratello Maestro di iniziare , nel mio Atanor personale, a meditare. Mi chiesi allora ,se per caso, nei nostri Rituali vi fosse una chiara ed esplicita indicazione a compiere questa operazione. Questo complesso di norme che sono simili in tutto il mondo costituiscono un vero legame formale che unisce i Fratelli sotto ogni cielo stellato e ciò rappresenta uno dei cardini su cui poggia la universalità della Istituzione massonica.

Andai dunque alla ricerca di queste tracce che in quel periodo non mi erano chiaramente espresse. Studiai quindi attentamente i contenuti di queste poche ma luminose pagine e subito mi colpirono alcuni passaggi in essi contenuti. AI momento della Iniziazione viene considerato come PRIMO DOVERE dell’iniziando “ percorre incessantemente la Via Iniziatica Tadizionale”.

Per Tradizione viene inteso un Insegnamento che si basa su un assioma chiaro ed immutabile e cioè della esistenza di un mondo visibile e di uno invisibile, quindi di un piano dell’essere e di uno del divenire in altre parole di una realtà fisica e di una metafisica. Mentre il raziocinio ed i sensi fisici ben utilizzati sondano la realtà fisica è evidente che per indagare un piano Metafisico e necessario ricorrere alla introspezione ed alla meditazione uniche strade percorribili per raggiungere le vette della intuizione.

Trattasi della Via dell’Iniziazione Mediterranea che tante traccie ha lasciato nel complesso di norme e formule che regolano la nostra vita in Officina.
Ma è in altro Rituale che l’indicazione a percorrere nella nostra esistenza la via della introspezione interiore diviene chiarissimo ed operativo. Trattasi di un Rituale che molte volte non viene praticato , con regolarità, perché il passaggio in questo grado viene considerato come un momento intermedio prima dello ottenimento della Maestria. In realtà in questo scritto si indicano con forza

  • i cinque sensi che vengono descritti operativamente come”strumenti
    che uniscono il nostro esterno al nostro io più intimo” con una
    esortazione a “ distinguere quanto sia illusorio e quanto sia realtà” e
    questo si può ottenere solo con una attenta analisi meditativa-
    introspettiva di ciò che ci circonda.

Sempre più avanti, nello stesso, si esorta senza se e senza ma allo studio di
Mosè, Platone, Pitagora ,Ermete Trismegisto e Paracelso, e questa esortazione rappresenta un esplicito consiglio a completare e penetrare profondamente lo studio della Religione ,del Pitagorismo, dell’Ermetismo e della Alchimia. Per Mosè si intende lo studio della trascendenza e la fede nella esistenza di un essere supremo oltre ad un accenno alla presenza dei Grandi Misteri. A riguardo di Pitagora e del pitagorismo ricordo due cose fondamentali:

  • Non è possibile penetrare la aritmetica Pitagorica senza una opera di
    attenta meditazione poiché ai numeri sono associati concetti astratti
    che vanno intuiti prima che acquisiti

– Nei Versi Aurei vero testamento del pitagorismo, è scritto: “dalla
dolcezza del sonno sorgendo fissa con cura tutto ciò che nella
giornata farai e a sera i tuoi occhi ancorché stanchi non accolgano il
sonno senza esserti prima chiesto quel che facesti! Dove sono stato?
Che cosa ho fatto? Cosa ho omesso di quel che avrei dovuto fare?. Cominciando dalla prima azione fino all’ultima di nuovo tornandovi. Se hai compiuto cose spregevoli punisciti; se ha direttamente agito rallegrati”. Da quanto espresso si evince che si tratta di esortazioni che rappresentano una indicazione forte e chiara ad intraprendere un lavoro costante di introspezione razionale. Sempre dai versi Aurei il pitagorismo specifica riferendosi alla pratica meditazione interiore: ”Queste cose sforzati di fare, a questa cose applicati con fervore ed esse ti metteranno sulla via della virtù divina.” Ed ancora: “Da tutto ciò reso forte, degli Dei immortali e degli uomini conoscerai l’essenza e come ogni cosa si svolge e giunge a termine. Conoscerai anche come sia legge una Natura uguale a se stessa in tutte le cose. Così non avrai vani desideri, e nulla ti resterà celato”. Questa è la via interiore Pitagorica. A riguardo di Ermete Trismegisto si specifica ,che il Pimandro, libro fondamentale del Corpus Ermeticum, inizia con una meditazione che sfocia in un incontro e dialogo con con la Trascendenza e questo è un chiaro retaggio Ghnostico. Inoltre il testo chiave della tradizione Ermetica, “La tavola di Smeraldo” contiene la Operazione del Sole e della Luna , in altre parole la Quadratura del cerchio. Infatti in esse si legge ” separerai la terra dal fuoco il sottile dallo spesso dolcemente e con grande ingegno. Sale dalla terra al cielo e nuovamente discende in terra e riceve la forza delle cose superiori…” Queste parole alludono all’operazione della quadratura del cerchio che si ottiene con la meditazione volta ad ottenere un distacco della parte spirituale dal substrato materiale per far poi ridiscendere lo Spirito nella materia attraverso una opera di corretta meditazione interiore. Trattasi , in questo caso, di un classico esempio di Solve et Coagula. Questa è la via interiore Ermetica. Indicando Paracelso si allude alla Alchimia ed alla esistenza del micro e del Macrocosmo. Questa disciplina esoterica tratta della purificazione della materia, della trasformazione del vile piombo in oro apparentemente, ma trattasi di una disciplina che MAI si distacca dalla dimensione spirituale. Infatti l’arcano della Alchimia è che la materia è spirito cristallizzato mentre lo Spirito è materia volatilizzata. Quindi nell’ambito di questa dottrina la parte spirituale è sempre presente. Insegnano gli antichi alchimisti che occorre preparare un alambicco che viene poi chiuso simbolicamente con il Tappo di Ermete e tale atto, traslato sull’essere umano, indica che occorre isolarsi dal mondo profano bloccandone ogni influenza estranea con la rottura della coscienza, passo fondamentale per ogni atto di meditazione interiore. Quindi, ottenuto ciò, si attuano operazioni successive , tramite la meditazione interiore, di solve et coagula cercando di purificare i propri corpi costituenti. Questa è la via interiore Alchemica. La vita introspettiva meditativa è quindi una via da percorrere
incessantemente, non una come tante, ma essa viene esplicitamente indicata nei nostri Rituali divenendo una chiave fondamentale per aprire lo scrigno ove è racchiuso il segreto massonico… Il vero Maestro è dentro di NOI ed è tramite la nostra introspezione ,guidata dalla intuizione resa più acuta dalla penetrazione sempre più profonda e sottile dei simboli muratori, dei miti e delle allegorie su cui si basa l’insegnamento della Massoneria, che possiamo cercarlo e per gli adepti trovarlo. A prescindere comunque NON importa giungere alla meta, ciò che conta è iniziare il cammino.

La scelta che compiamo quando entriamo nella Istituzione è una scelta che
impegna tutta una vita e come tale deve essere operativamente e
sinceramente e felicemente vissuta. Non esiste alcun vento favorevole per il marinaio che non conosce la propria meta e che ignora l’arte della navigazione. Nelle nostre Officine si apprende l’Arte Reale. Infatti in Esse si viene accettati attraversando quattro viaggi simbolici che ora dopo quanto detto acquisiscono un preciso significato operativo:

  • La prova della TERRA non è che un cambiamento delle abitudini e della
    condotta in altre parole il dominio del corpo eterico
  • -la prova dell’ACQUA è il pentimento, la purificazione dei sentimenti e
    quindi il dominio del mondo astrale
    — – la prova dell’aria è la purificazione dei pensieri e cioè il dominio di
    essi, dei dubbi dei pregiudizi e del mondo mentale
    — – la prova del FUOCO è la resistenza al dolore ed alla paura di perdere
    il proprio ego ed il corpo o i propri corpi inferiori o inferi, è la
    accettazione del “ sacrificio” anche in forma cruenta e di qualunque
    dolore nella via di progressione.
  • Questo è l’Arcano della VIA REGIA.
  • Queste prove non terminano mai e vanno rivissute giorno dopo giorno.
  • Questa e la via interiore degli elementi.

Tali azioni, indicate simbolicamente nei nostri Rituali ,si possono eseguire
realmente soltanto praticando la Via Interiore meditativa che può giungere fino al punto di creare , attraverso una opera di purificazione, il nostro Tempio Interiore. I rituali, quindi, rappresentano la nostra bussola e da essi spira un vento a NOI sempre favorevole.
Ho detto.

Concludo ringraziando Voi Tutti che avete avuta la bontà e la pazienza di
ascoltarmi ed il Presidente del Collegio che mi ha invitato oggi.

Grazie.

Fr:. Gino Balboni

Sospesi tra la Vita e la Morte

Sospesi fra la vita e la morte. Una espressione con molti significati che alludono al momento della fine della vita, oppure ad un rapporto con i luoghi e le rappresentazioni della vita e della morte, o ancora ad un rapporto simbolico ed onirico col mondo dei trapassati. Da qualche tempo però si è aggiunto un nuovo significato che allude ad una condizione di “fine vita” medicalmente sospesa o che si prolunga nel tempo, ha confini discussi, ed interpella tematiche eticamente sensibili. Penso che sia possibile datarne l’inizio a partire dagli anni ’70. L’umanità ha da sempre identificato la morte con il cessare delle manifestazioni vitali di base: il respiro innanzitutto (esalare l’ultimo respiro) ed il battito del cuore. Verso la fine degli anni ’50 si diffondono le rianimazioni con la respirazione meccanicamente assistita. Quindi un fatto nuovo: la cessazione naturale del respiro non può più essere il fatto oggettivo che da solo afferma la morte della persona. Inizia un territorio nuovo. Fra l’altro, un territorio nel quale le procedure di trapianto generano una domanda crescente di organi. Fu così che nel 1968, anche per dare regole chiare per gli espianti, la commissione di Harvard stabilì una nuova definizione di morte, la morte encefalica. Separando la morte del cervello da quella di cuore e respiro si è certamente dato un fondamento legittimo e clinicamente sicuro all’accertamento di morte, ma si è anche aperta la strada alla necessità di definire la morte per via di legge (ad esempio, in Italia, con la L. 578/1993), ma soprattutto si è oscurata la natura di evento della morte personale,
in favore di un processo studiato, il cui inizio può essere tracciato con indagini condotte da personale medico specializzato. È inevitabile che, una volta che l’oggettività del morire sia stata portata nel campo degli accertamenti diagnostici e dei comitati scientifici, prima o poi qualcuno ne metta in discussione i confini. Questo avviene per quei pochi che ancora oggi contestano la morte cerebrale, e per molti che invece invocano un allargamento del criterio, includendovi una condizione supposta di “morte corticale”. Quando la morte è vista come un “processo”, lo spazio che si apre viene popolato da figure simboliche dell’immaginale. La separazione anima/corpo è una tradizione orfico-pitagorica di grandissima nobiltà che ancora oggi alimenta i costrutti simbolici nella “terra di mezzo” fra la vita e la morte. L’idea di “mente separata”, disincarnata, nutre un filone di ricerche e narrazioni che compongono il mondo delle cosiddette esperienze di premorte, di solito consolatorie e rassicuranti. All’opposto, l’idea di “corpi disabitati”, per qualche non spiegata ragione, alimenta figure angosciose di
imprigionamento, costrizione, sofferenza impotente, vita indegna. È inutile domandarsi come un “corpo disabitato” possa fare esperienze mentali.
Dunque, nello stato di non morte e non vita, attorno alle raffigurazioni della mente si addensano rappresentazioni di pace e libertà, mentre attorno alle raffigurazioni del corpo si addensano rappresentazioni di sofferenza e imprigionamento. Queste figure ricordano da vicino quelle orfiche e
gnostiche del corpo come tomba o prigione dell’anima. Quasi che, mentre crediamo di affidare, ed affidarci, alla indagine scientifica, in realtà stessimo interrogando un archetipo mitico. L’impressione di corpo disabitato è evocata da una persona senza “funzionamenti”. L’equazione persona/funzionamenti è una rispettabile posizione filosofica (funzionalismo), ma portare qui il criterio della morte sembra una opzione piuttosto radicale. Lo slittamento del “morire” dalla constatazione di un fatto biologico (arresto del respiro, del cuore, dell’attività elettrica del cervello), ad un criterio funzionale (assenza di funzionamenti, di comportamenti, di attività), apre scenari ignoti ed espone a quella che eminenti bioeticisti hanno indicato come la china scivolosa. L’irreversibilità del fine vita potrebbe talora essere più opinione che constatazione. Sotto forti pressioni valoriali e materiali ed in condizioni di decisione difficile, rischiano soprattutto le persone più fragili e meno socialmente protette. Nella vita senza funzionamenti, che noi vediamo come un tempo sospeso fra la vita e la morte, c’è il rischio concreto di essere espropriati della propria morte sulla base di un giudizio medico “oggettivo”.
Anche sul versante del biodiritto l’elemento “oggettivo” può diventare determinante. La giurisprudenza anglosassone ha privilegiato negli USA il libero consenso, con le sentenze Cruzan e Quinlan negli anni ’80, ma nel Regno Unito, con la sentenza Bland degli anni ’90, ha dato massima importanza al “miglior interesse”: vivere con dignità. Il criterio ”oggettivo” è peraltro compatibile con logiche di eutanasia per diagnosi medica.
L’Italia, a partire dalla sentenza Englaro del 2007 fino alla legge sul consenso informato e le DAT del 2017 (L. 219/2017), ha seguito il principio della libera volontà e del consenso, e non ha enfatizzato il criterio oggettivo.
Tuttavia credo che, ciononostante, vi sia un punto ancora aperto: l’evento morte, per desistenza terapeutica o per rifiuto delle cure, viene regolato sulla base del presupposto che sia già avviato il processo del “morire” (questo sta dentro l’idea di “irreversibile”), e che questo sia trattenuto o sospeso da macchine o tecnologie di altro tipo. Ancora siamo in un contesto che chiede di stabilire “scientificamente” un inizio del morire.
Penso che il punto dirimente, il cuore della questione, sia se il morire senza dolore e con dignità debba essere legittimato da criteri oggettivi, certificati da dispositivi sociali di verità, o debba essere fondato sulla libera determinazione individuale. È lecito domandarsi se sia bene attendersi dalla scienza medica una parola ultima su coloro che sono percepiti come sospesi fra la vita e la morte. Oppure se non sia meglio rivendicare la libertà di morire bene per libera decisione, diretta o anticipata. In fin dei conti non diceva nulla di diverso Seneca nella 70° lettera a Lucilio: “La vita ognuno di noi deve renderla accettabile anche agli altri, la morte solo a sé stesso”.

Fr:. Roberto Piperno

La morte dell’Anima

Carissimo Presidente.
Carissimi Fratelli,
anzitutto ringrazio il Presidente per l’onore che mi ha fatto concedendomi la parola quest’oggi, in occasione di questo incontro. L’origine del concetto di anima appartiene alla notte dei tempi. Esso nasce dall’esperienza del respiro, del soffio vitale che costituisce la vita dell’uomo e di ogni essere vivente. Il momento della morte si configura come quello in cui si spira, ossia si esala l’ultimo respiro, come se il soffio vitale uscisse dall’uomo: di qui le espressioni “render l’anima”, o “render lo spirito”. Già, perché anche gli uomini della preistoria pensarono che il soffio vitale, l’anima o lo spirito, alla morte, uscisse dal corpo ed andasse via, da qualche parte, magari verso il cielo, dal momento che la natura dei vapori è quella di muoversi verso l’alto. Sta di fatto che il concetto di anima si trova saldamente connesso, fin dai tempi più antichi, con quello di una qualche sopravvivenza dopo la morte, dunque di una qualche sua immortalità e perciò stesso con un qualche culto dei morti. Il Sacro Testo afferma che l’uomo è formato principalmente di due elementi: il corpo e l’anima. Quest’ultima è l’essenza di tutta la vita fisica, intellettuale e morale. Secondo la più antica tradizione teologico-filosofica del mondo greco l’anima è immortale, anzi eterna e, come fu sempre, così sempre sarà e vivrà. Probabilmente, l’esperienza della morte ha generato la persuasione che nel tempo e nel mondo visibile non c’è salvezza, né verità. L’anima, ritengo, è nata da questa persuasione, perciò è fuga dal tempo e dal mondo verso l’eternità e l’invisibile. Per Omero parlare di anima significava parlare dell’ultimo respiro, di ciò che resta dopo la morte. Il privilegio dei morti, ossia quello di non morire più, promuove nella tradizione poetica la nozione di anima come memoria, che oltrepassa la caducità del tempo e il suo flusso di distruzione, capace di annientare tutto. Per Platone, quando l’anima taglia il legame con il corpo lo fa per esprimersi come puro pensiero: per lui è il mezzo per accedere alla più alta forma di conoscenza. Nel gabinetto di riflessione, davanti a diversi segni tangibili della caducità umana (primo fra tutti un teschio), è stato richiesto a tutti noi di redigere un testamento. Così facendo, abbiamo certificato la fine di quello che siamo stati fino ad allora, ma contemporaneamente siamo rinati, iniziando, in vita, un processo di resurrezione spirituale, che ci ha condotti a mettere da parte tutti i condizionamenti ed i limiti della nostra esistenza profana, per elevarci ad un grado di conoscenza e ricerca interiore prima impensabile. Solo attraverso questo processo di conoscenza e coscienza del proprio io, il neofita può aspirare alla ricerca del trascendente, che non è il frutto di un dogma o di una verità rivelata, ma della sua partecipazione alla propria intima essenza. La morte, quindi, costituisce un simbolo di discontinuità con il passato, l’inizio di una nuova vita; a differenza dell’aldilà, in cui ci portiamo la zavorra della nostra vita terrena, nei nostri Templi, dopo l’iniziazione, comincia per noi una nuova esistenza, del tutto avulsa da quella profana. Questo concetto di morte è quello che più si confà al termine “trapasso”, la cui etimologia significa “andare oltre”, “andare al di là”, il che fa pensare al superamento di un limite, quindi ad un nuovo inizio e non, come abitualmente siamo portati a credere, alla fine di qualcosa.
Ed infatti, con la morte del nostro io profano travalichiamo i nostri limiti,
superando tutte le convinzioni ed i pregiudizi che ci hanno impedito di scavare profondamente dentro di noi, ricercando la nostra vera natura.
La morte, quindi, assume un significato di cambiamento, non più esteriore (la morte del corpo), ma interiore (la rinascita dell’anima).
E allora come può, per noi Massoni, quest’anima rinata morire? E perché?
Mentre scrivevo questo mio lavoro, ho pensato a quale figura umana potesse meglio rappresentare la morte dell’anima. Ho pensato all’uomo melanconico, a colui che è incapace di amare, non critico di se stesso e insoddisfatto di se stesso perché consapevole della sua imperfezione, ma perché negazionista della propria perfettibilità o addirittura della propria valenza di essere umano. La mancanza di interesse verso il creato, il rifiuto della ricerca di un senso della vita e dei valori che la interpretino come manifestazione della comunanza con l’Uno, la costante e profonda denigrazione di sé, sono segni del distacco da ciò che è umano e della propensione a non scrutare il buio dentro di noi, ma della voluttà di precipitarvici. Si arriva così alla morte dell’esperienza spirituale, al suo interno non si vede luce, c’è solo dolore dell’anima che soffre nell’agonia della morte di se stessa e tale dolore può anche non tramutarsi mai nella gioia della rinascita spirituale. Perciò, diventa di fondamentale importanza una guida dell’anima che sappia aiutare nelle doglie di questa generazione, indicando la luce vera, fuggendo – come siamo portati nella vita profana – ad inseguire il banale adeguamento al sociale, a ciò che, secondo la società che viviamo, appare conforme al pensiero della massa. Che la società che oggi viviamo, la sua cultura, il suo modo essere sia in larga misura responsabile del disagio e anche del disastro psicologico e spirituale, è una cosa ormai ovvia, purtroppo, ma dietro questa idea sta la figura di un uomo privo di essenza, tutto dato nel tessuto delle sue relazioni sociali. Ignorando il fondo della nostra anima, che col sociale non ha nulla a che fare, si ottiene l’occultamento dell’essere, negando la realtà spirituale dell’uomo, al di sopra delle circostanze e del sociale e, dunque, abbandonandolo definitivamente al male. Disonestà, malvagità, il cui segno distintivo è il pensare al male. Questa è la malattia dell’anima, il dolore della sua schiavitù nei confronti delle passioni, cui si oppone la libertà, la beatitudine, la salvezza dell’intelligenza, della comprensione, per le quali l’uomo saggio non pensa il male. Eppure, ci si preoccupa costantemente della salute del corpo, cercando di nutrirlo e allenarlo nel modo giusto, sapendo bene che, inevitabilmente, invecchierà e morirà. È sufficiente mangiare un fungo velenoso a portarci via la parte materiale di noi. Al contrario, ben pochi si preoccupano della morte dell’anima che, invece, può sopraggiungere solo per colpa nostra e può portare a quella tragica melanconia testé citata. Cos’è allora la Morte dell’Anima? Con la morte dell’anima si intende la perdizione, ossia un’anima che continua sì ad esistere, ma nella perenne sofferenza. Nel caso della morte spirituale è una sofferenza che non avrà mai fine. Tutti proviamo pietà e dispiacere per un giovane che muore o un bambino che soffre, eppure non nutriamo gli stessi sentimenti per chi uccide la propria parte spirituale, per quell’uomo melanconico. Pur potendo spesso far qualcosa perché questo non accada, tendiamo a non preoccuparcene. Quando l’anima muore, una persona seppur fisicamente viva, non è più lucida e in piena coscienza di sé. È naturalmente spinta verso il male, non capisce i propri errori e trascorre i giorni ad inseguire ciò che non ha valore. Chi ha ucciso la propria anima potrà anche avere l’illusione di essere felice, ma la realtà è ben diversa. Secondo Eckhart, definito come Maestro dell’anima in Occidente, non c’è sapere dell’anima diverso dal sapere di Dio, Dio e anima sono la stessa cosa. Non vi può essere un’indagine sull’anima che non sia indagine sulla verità in sé, sul valore in sé, dunque su ciò che chiamiamo Dio. Il sapere dell’anima si acquisisce scendendo nel profondo, analizzando i veri contenuti, i vari legami, fino a mettere a nudo la radice dell’io. Raggiunto il fondo di questo io, si raggiunge la morte dello psichismo, teoria che tende ad attribuire la natura e le funzioni della psiche a tutta la realtà e, al contempo, si ottiene la salvezza dell’anima. Il fondo dell’anima è l’atto più profondo di amore e conoscenza, nel quale si conosce e genera il pensiero scevro da preconcetti e pregiudizi. In conclusione, il pensiero e la volontà possono assicurare la liberazione interiore dell’uomo mettendolo in grado di dominare le passioni. Bisogna reprimere le perversioni, gli errori, gli abusi e, a tal fine, occorre una ben sperimentata tecnica che noi massoni cerchiamo costantemente di affinare. Grazie alla sua libertà, l’uomo può introdurre nella passione giudizi che rettifichino quelli che essa deforma, rimediando così ai cattivi usi e agli eccessi delle passioni che portano alla morte dell’anima. E il rimedio più generale e più facile da praticare contro tutti gli eccessi delle passioni, quello che permette nel modo migliore di correggere i difetti del proprio carattere, è separare gli impulsi che provengono dal corpo, sangue e spiriti animali, dai pensieri ai quali si ha l’abitudine di congiungerli, abituandosi così a scindere giudizio e sentimento. Pertanto, occorre che la ragione domini la passione e non viceversa. Diversamente, l’anima, confinata nella prigione dello psichismo, si ammala e non può mai diventare spirito universale, destinata così alla morte sicura. Grazie a tutti e lascio la parola agli altri autorevoli relatori.
Fr. Roberto Clarizia

Massoneria e Fine Vita

Il concetto di morte permea – tramite i simboli ed i rituali – tutto il lavoro libero muratorio: dal suicidio metafisico durante il rito di iniziazione volto alla catarsi del profano, alla leggenda di Hiram nel rito di terzo grado.
La Massoneria, per certi versi, insegna a morire. Questo per vincere le due
maggiori paure dell’uomo: quella dell’abbandono (ed in rito di iniziazione
abitua al rilascio dei metalli e delle illusorie ricchezze profane per apprezzare l’introspezione e la spiritualità umana) e quella dell’ignoto (tramite il viaggio nella speculazione filosofica racchiusa nell’acrostico VITRIOL e la ricerca). Dunque, l’accezione di morte in Massoneria assume una valenza positiva poiché da essa tutto ha inizio. Dalla putrefazione del Gabinetto di Riflessione si rinasce a nuova vita, quella iniziatica, volta ad uccidere il nostro IO (simbolicamente rappresentato dal nostro Maestro esteriore), fonte di contrasto e violenza, per far rinascere – tramite la valorizzazione del SE – Hiram, il vero e unico Maestro che è in noi. Ma poiché la Massoneria non è fine a se stessa, ma svolge un ruolo formativo sull’individuo consegnandogli un metodo filosofico-speculativo e pedagogico volto al miglioramento, vale la pena indagare quali strumenti etico-morali essa offra per interpretare e gestire, anche nella quotidianità delle varie professioni (sanitarie e legali, ad esempio), i concetti di malattia e di “fine vita”. La Massoneria può, infatti, offrire qualche concreto spunto per interpretare una materia che non ha ancora avuto, almeno in Italia, un riconoscimento giuridico, mancando una legge che preveda la possibilità di aiuto medico alla morte volontaria per le persone che non dipendono da trattamenti di sostegno vitale. Il quadro normativo, infatti, è piuttosto incerto: da un lato si punisce penalmente l’eutanasia (art. 579 c.p. – omicidio del consenziente) e, a determinate condizioni, anche il c.d. suicidio assistito (art. 580 c.p. – Istigazione o aiuto al suicidio); dall’altro la Costituzione prevede che nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario contro la propria volontà tutelando, così, la libertà personale considerata inviolabile. Solo con la sentenza n. 242/2019 (caso del Dj Fabo) la Corte costituzionale ha riconosciuto il diritto al suicidio medicalmente assistito per le persone che ne formulino richiesta in piena lucidità, con patologia irreversibile, insopportabili sofferenze fisiche o psichiche e tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale. E’, dunque, un confronto tra scienza (medica e giuridica) ed etica, laddove quest’ultima assume – in tale peculiare contesto – un ruolo d’indirizzo e interpretazione delle scelte umane e professionali. Ed al riguardo la Libera Muratoria può sicuramente offrire, come in passato, il proprio concreto contributo, avendo sempre ispirato, direttamente o indirettamente, le principali rivoluzioni culturali e umanitarie del XX secolo: dall’approvazione della Carta Costituzionale tramite Bartolo (detto Meuccio) Ruini, alla legge sul divorzio, passando per la stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ove si afferma espressamente il concetto di fratellanza ponendo l’Uomo al centro dei dibattito. Del resto, la medicina, il diritto e la Massoneria riguardano l’Uomo e con esso sono nate; alla Libera Muratoria, tuttavia, è riservato uno spazio ancillare e di completamento della prime due discipline, quello intimo e personale, di formazione iniziatica, attinente alle dinamiche etico-morali dei comportamenti. Su questo diverso e parallelo piano educativo occorre, dunque, ricercare le regole che la Massoneria proporre per orientare l’uomo chiamato ad operare nel difficile frangente del c.d. fine vita. Per fare questo, alla luce dello scarno quadro normativo e giurisprudenziale sopra richiamato, vale la pena indagare preliminarmente, ed in chiave esoterica, il “concetto di giustizia”, poiché ogni decisione presuppone una valutazione sulla correttezza della scelta operata. La giustizia per il Libero Muratore assume un’accezione più ampia e intima di quella tipicamente profana, involgendo anche la sfera prettamente etico morale non considerata dal legislatore statale come preminente. La Libera Muratoria, del resto, insegna la c.d. Legge Morale, che assorbe e per certi versi supera, quanto meno in termini iniziatici, il concetto di giustizia profana. Tale caratteristica (tipica della Libera Muratoria) affonda le proprie radici esoteriche in quella corrente filosofica-giuridica nata con Imerio (filosofo greco del IV secolo d. C.) e proseguita tramite Aristotele e Pitagora, che si richiama al giusnaturalismo, secondo cui esiste un diritto naturale preesistente e superiore a quello positivo creato dall’uomo (il c.d. giuspositivismo), ispirato dalla ragione, dalla virtù e da solidi principi morali. In proposito, leggendo semplicemente il rituale dell’iniziazione massonica ci si potrà ricordare che il MV si rivolge al profano dicendo che “…i principi della libera muratoria, comuni a tutti i Fratelli sparsi per il mondo e fondati sulla ragione, rendono quest’Ordine iniziatico inconfondibile e universale…”; mentre il 2^ SV ammonisce che “…la Morale è per noi la Legge Naturale, universale ed eterna che guida ogni uomo intelligente e libero. Essa ci fa apprende i nostri doveri e l’uso ragionato dei nostri diritti e si rivolge ai più puri sentimenti del cuore per assicurare il trionfo della Ragione e della Virtù…”. E’ anche su queste basi che il Libero Muratore può (in totale libertà) affrontare e giudicare i fatti della vita e gestire i suoi inevitabili conflitti, ponendo l’Uomo al centro delle scelte tutelando, così, la sua Libertà e Dignità, in modo tale da lasciarlo padrone – a determinate condizioni scientifiche e deontologiche – della sua Vita senza imposizioni, pur serissime nei fondamenti, provenienti da altre opposte convinzioni che pure vanno rispettate. Vale la pena ricordare, per concludere, il pensiero del Card. Carlo Maria Martini, il quale affermava che l’eutanasia è “Un gesto inaccettabile che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte. Diverso, invece, è il caso dell’accanimento terapeutico tramite procedure sproporzionate senza speranza di esito positivo. Interrompendole non si vuole procurare la morte, ma si accetta di non poterla impedire.
Fr:. Gian Luca Altini

La morte della Libertà

Oggi non siamo a recitare l’elogio funebre della libertà. Non è ancora
morta, ma vediamo purtroppo che versa in gravi condizioni di salute. Sta
per entrare nella fase terminale. Mai la libertà, in questi nostri tempi moderni, dacchè è divenuta un esasperato e sbandierato diritto della modernità, ha corso maggiori pericoli di vita (di quanti ne corra ora). Questa è un’era segnata dalla dittatura del relativismo, siamo divenuti la
civiltà dei mercati e i “mercanti sono entrati nel tempio”. Si è perso ogni
senso di trascendenza e di ricerca del divino e siamo sciolti nel nulla della
civiltà dei consumi. Fuori troviamo eserciti di atei materialisti che perseguono la battaglia dei capricci insaziabili del consumo e dell’apparire. La società è invasa dai lupi della tecnica e della tecnologia che insegnano i dogmi del tecnoscientismo. Ormai l’uomo crede maggiormente nella religione del corpo che non in quella dell’anima. Per il massone è un dovere diffondere il valore della libertà, della libertà di pensare per raggiungere i massimi livelli della conoscenza. Fondamento della libertà è la conoscenza e perché la liberta possa essere raggiunta necessita il libero arbitrio, quel famoso “potere di compere o non compiere certi atti secondo la determinazione della nostra volontà”. In questa società moderna dove un male strisciante quale il tecnoscentismo soffoca la conoscenza, ormai demandata in maniera assolutamente decontestualizzata al mezzo informatico; imbriglia il libero arbitrio nei lacci di una comunicazione falsa e persuasiva; come possiamo fare a non far morire il nostro essere liberi?

Dobbiamo assolutamente appoggiarci al nostro secondo pilastro
fondamentale di massoni: il senso Etico, all’essere uomini di buoni
costumi e perseguire il senso morale delle nostre azioni e delle nostre
scelte soprattutto in tempi cupi come questi attuali. Essere di buoni
costumi non si restringe al nostro apparire e alla percezione che la gente
può avere di noi, ma attiene a quella dimensione morale, alla legge
morale universale che dobbiamo sempre avere in vista. Più che mai, in un mondo irreversibilmente proiettato al futuro con mezzi sempre nuovi e abitudini sociali una volta non immaginabili, la medicina per questa Libertà agonizzante è l’agire etico quotidiano. (nella vita, nella professione, nella politica, nel culto, nello scrivere, nel parlare, nel riunirsi, nel mangiare, nel comprare………………)
Ho detto
R:.L:. Europa n° 765 Or:. di Riccione
Fr:. Fabio Giavolucci

La rappresentazione della morte

La rappresentazione della morte, dal punto di vista iconografico e antropo-sociologico, nella cultura occidentale è quella cimiteriale. Dagli antichi egizi agli etruschi, dai greci e romani fino ai nostri tempi la monumentalità dei siti di sepoltura ha accompagnato il succedersi delle civiltà. Monumentalità che vuole esprimere un monito (qui è il luogo a cui tutti siamo destinati) e un ricordo che esprime una speranza consolatrice di continuità, oltre la dissoluzione del corpo, dello spirito, dell’anima. Gli stessi riti che hanno da sempre accompagnato la sepoltura costituiscono una rappresentazione il più delle volte religiosa, o comunque intrinsecamente legata all’insieme delle credenze socioculturali, e una spettacolarizzazione della morte stessa.
Gli stessi corpi divengono rappresentazione o intenzionalmente (vedi la mummificazione degli Egizi), o quando il fenomeno avviene per cause naturali e diventa evento “miracoloso” (la incorruttibilità del corpo dei
santi e delle reliquie) o comunque oggetto di curiosità (Cripta dei cappuccini di Palermo, Ferentillo, solo per citare le località più note in Italia). Gli stessi resti scheletrizzati, quindi privati della parte “impura” e
corruttibile del corpo (una sorta di “albedo”), divengono parte architettonica a rappresentazione e monito (Cripta dei Cappuccini a Roma, Capela dos Osos a Evora) con un gusto macabro che ritroviamo anche nel
nostro meridione in forme simili, ma più legato al culto delle anime del purgatorio (le cosiddette anime “petentielle”, cioè che chiedono le nostre preghiere)(vedi Cimitero delle Fontanelle, Chiesa del Purgatorio ad
Arco a Napoli). Ricordiamo come in tutto il nostro meridione fosse diffuso il “putridarium” o i cosiddetti “scolatoi” dove veniva posto il cadavere, solitamente un religioso od un nobile che pagava per la procedura, a
disseccare (cioè a perdere tutti gli umori corporei raccolti in vasi chiamati “cantarelle”) finché non rimanessero le ossa. Questo uso fu mediato dagli spagnoli, ma in realtà aveva una più antica origine probabilmente risalente
alla “doppia sepoltura” delle antiche popolazioni greche dove i parenti tornavano a distanza di un anno o più a rivestire il defunto ormai scheletrizzato. Lo scopo viene identificato come un voler liberare il corpo dalla sua parte corruttibile per giungere al bianco delle ossa (abbiamo già accennato alla similitudine del processo alchemico dalla “nigredo” all’”albedo”) e liberarne l’anima (Catacombe di S. Gaudioso Napoli, ma anche Cripta della Cattedrale di Noto, e numerosi altri esempi).
Nell’ambito dell’iconografia classica, la morte viene rappresentata come monito nelle chiese (tipicamente con teschi o rappresentazione dell’angelo della morte, ma anche come morte eroica o “santa” nella rappresentazione del martirio dei Santi). Viene rappresentata come metafora da numerosi artisti (Il cavaliere, la morte e il diavolo di Durer ad es.), o come gloriosa, eroica morte in battaglia. Le famiglie più abbienti fanno ritrarre il morto e ne fanno scolpire statue. Dei personaggi illustri si conserva la maschera mortuaria. Alcuni cimiteri monumentali contengono cappelle funerarie e statue che sono veri capolavori (Cimitero Monumentale di Milano, il Pere Lachaise a Parigi – ma anche sempre a Parigi i cimiteri di Montmartre e Montparnasse – ed i cimiteri monumentali di numerose capitali e città europee). I ritratti, le statue le cappelle funerarie rimangono appannaggio dei ceti più abbienti e per i meno abbienti c’è spesso soltanto la fossa comune. Ma anche la risistemazione degli ossari può dar luogo alla spettacolarizzazione della morte (sempre a Parigi Les Catacombes). Con l’avvento della fotografia i ritratti possono permetterseli anche i meno abbienti e l’uso di ritrarre i morti, sul letto di morte, ma anche seduti tra i vivi, si diffonde rapidamente (forse questa usanza che era diffusa un po’ dappertutto anche fino agli anni ’60 del XX° secolo può sembrarci macabra, ma spesso era l’unica foto del defunto che la famiglia possedeva). Ma lo spettacolo della morte da sempre è il deterrente usato dalla giustizia e dal potere. Senza voler addentrarci nei vari e fantasiosi metodi di somministrare la morte in nome di una legge sia terrena che divina, ricordiamo la crocifissione degli antichi romani e la condanna “ad bestiam”, cioè ad essere sbranati da animali feroci nel circo, ed anche gli stessi “ludi gladiatori” (che pur assumendo, col tempo, una caratterizzazione “sportiva
esasperata”, derivavano dal sacrificio dei nemici in onore dei defunti mediato dagli etruschi a loro volta influenzati dai greci), le teste dei nemici appese alle porte delle città, i criminali giustiziati appesi alle forche
a monito dei passanti, senza dimenticare la pratica dell’impalamento cara agli ottomani, i roghi dell’inquisizione. Già la stessa somministrazione della pena seguiva un rituale che doveva servire da deterrente ed esempio, ma allo stesso tempo essere edificante per gli astanti e culminare col pentimento del condannato (il pentimento non comportava la grazia, ma la salvezza dell’anima – come riporta Prosperi – vi erano le cosiddette compagnie della buona morte, composte da religiosi e persone pie che pregavano col condannato e lo accompagnavano al patibolo per ottenerne il pentimento). Così come si fotografano i morti, la fotografia è testimone anche dell’uccisione di briganti, di condanne a morte ed esecuzioni (Le foto dei Briganti Meridionali, ma non solo, legati, ormai morti, ad un palo o a una scala tra due tutori dell’ordine, le foto di esecuzioni – ricordiamo per tutte quelle dell’esecuzione di Cesare Battisti al Castello del Buonconsiglio di Trento fra folla schiamazzante e il sorriso soddisfatto del boia – ma potremmo arrivare fino quasi ai nostri giorni con le foto di Che Guevara – ma anche quelle di Gheddafi linciato dalla folla, o quelle delle esecuzioni in Iran). Senza voler esprimere un giudizio di parte, ci si limita a considerare come nei media vi sia un’escalation verso la spettacolarizzazione della morte con una rappresentazione morbosa che sfiora quasi la devianza.
Se da un lato cinema e arte ci hanno offerto capolavori che rappresentano la morte, anche in maniera cruda e talvolta ironica, ma pur sempre in una visione universale (Il settimo Sigillo di Bergman, ad esempio, ma anche
opere teatrali, dipinti, come Guernica di Picasso), e se i media con la fotografia e i filmati di reportage ci hanno permesso di vedere realtà che solo potevamo immaginare (creando anche capolavori – come ad esempio le foto di Capa), dall’altro lato lo scoop ad ogni costo, la ricerca del sensazionalismo, dello share, giocando sulla morbosità portano verso una devianza voyeuristica.

Fr:. Giorgio Bellentani – R:.L:. Menotti – Borelli all’Or:. di Modena

Tavola della Morte

Caro Presidente, cari M.V. e Fratelli tutti, questo argomento da Voi trattato oggi mi interessa in modo particolare, da sempre, da bimbo, da ragazzo ed ora da adulto e Fratello. Sono qui Vostro Ospite, per fare, ed esprimere, con voi alcuni miei pensieri, sul tema della Morte, molto, troppo o forse enormemente importante … quanto ancor più profondo. Inizierò con una semplice barzelletta, spero di non dispiacere a nessuno… “Cosa fa secondo voi un ateo in una bara? “per far prima visto che siamo in un tempio massonico, rispondo io per voi… “è uno vestito dalla festa che non sa dove andare”. Continuo con un pensiero, forse per i più, più serio, ripetendo ciò che diceva Epicuro della Morte, “non si può essere intimoriti dalla Morte, ne
averne paura, perché quando ci siamo noi Lei non c’è, e quando c’è Lei
noi non ci siamo. Passo ad un’atra riflessione, sempre brevemente; noi diciamo che nulla è Impossibile all’Uomo, grande falsità, grande illusione, ci sono molte cose Impossibili a tutti noi, quotidianamente e non, in qualsiasi stato, in qual si voglia occasione in qual si voglia modo dell’essere. Questa è una semplice riflessione, molti si illudono del contrario, sperano per vivere, nell’opposto; ma continuando a volare, vi è una cosa unica e certa che sicuramente ci capiterà, l’incontro con la Morte. Certo questo incontro si può determinare, o cercare di avvicinarlo in un tempo terreno ma per il più dei casi non è in mano a noi; sicuramente è l’Unica cosa certa che ci capiterà. Ben inteso, neanche la Vita dalla sua nascita è certa, è semplice non ci appartiene, come la Morte. Nulla ci appartiene su questa Terra, la vita sicuramente no, … so che qualcuno non la pensa cosi, ma non siamo noi a determinarla. Figuriamoci la Morte. Devo ammettere che a volte qualcuno vuole determinarla, su come incontrarla, ma è come volere vedere dietro la siepe prima del tempo, prima di esserci arrivati. Io penso, solo che qualcuno voglia togliersi la curiosità prima del tempo, di sapere cosa si prova in quel momento, e cosa c’è dopo; da qui potremmo scrivere fiumi e fiumi di parole, con frasi dal significato laico, secondo vari credi, secondo varie religioni, e secondo vari ed infiniti modi di pensare.
Stoici, mistici, a me cari, come Epicuro, Marziale, Marco Aurelio, per arri
vare fino ai giorni nostri Tesla, Adolf Rol potrebbero disquisire nei Tempi.
Importanti uomini prescelti da varie entità religiose o meno possono
sicuramente metterci in guardia su come prepararci a questo incontro
con Essa, ma qui entra in campo secondo me, la vera ed unica nostra
possibilità di agire per aspettarla, per affrontarla, o anche per abbracciarla. L’arma che abbiamo è si solo la nostra ragione, che ci porta ad abbracciare un “albero, alto alto alto, fra vari “, uno di questi alberi è la Fede. Vi ricordo ancora, per i più recalcitranti, che tutti noi Massoni, dobbiamo essere Fideisti e dobbiamo credere nell’Essere Supremo, cosa per altro sottoscritta all’atto della nostra tegolatura. Se non fossimo fideisti il Grande Architetto dell’Universo, potrebbe renderci “non lieve “il Terreno al cammino nei Campi Elisi “. Questo abbraccio ad uno dei vari alberi, ed al nostro inerpicarcisi, con la Ragione, ci porta ad un punto sicuramente non sorvolato, la curiosità di cosa c’è dopo la Morte. Su cosa avviene nel momento del distacco dal corpo terreno al corpo ancestrale, da non confondere questo, con il corpo astrale: semplicemente da ciò che è corporeo ed incorporeo. Qui dovrei menzionare la Professoressa Hack; La ruota che Gira; lo Squarcio dei Cieli, continuo e ripetuto, la Catena d’Argento che lega Il corpo al cielo per tre giorni dopo la Morte, nei quali il corpo deve rimanere immobile al ritorno ad essere azoto ed a tante altre cose…che non escludono l’esistenza dell’Anima Immortale. Come esperienza personale, … non aspettatevi che dica che sono nato, morto e poi rinato… e che ho trovato tanto altro; posso dirvi solo che ho conosciuto chi sapeva predire con la numerologia e la scrittura meccanica la fine di un percorso terreno; che ho studiato a lungo il fatto delle “foglie scritte” in India, o più semplicemente parlarvi della Poesia di Totò “la livella”, che amo ricordare con questo nome, non come Principe di Santa Romana Chiesa di rito bizantino; un massone che per esserlo a modo suo profondamente creò un’Obbedienza personale… Questo però mi fa capire che traslitterando un poco, cari Fratelli, stiamo già pensando alla Morte come fatto Temporale, ma soprattutto stiamo già scivolando in quello che è la vera nostra curiosità, già espressa, e cioè, su cosa c’è dopo la morte, e tutti noi penso vorremmo darci una sbirciatina, ma per fortuna non si può… questa sbirciatina non verrebbe data solo per curiosità, ma molti di noi vorrebbero correggere il percorso della nostra vita terrena, per essere più in sintonia con un sicuro “secondo Tempo” credo che decisamente siamo andati fuori tema trattando della Morte… non dobbiamo confondere la Morte con cosa ci sarà dopo o con la nostra Vita. Potrei parlarVi della Pianura di Meghiddoo in Israele fra Acri e il Mare, nella quale, alla fine dei TEMPI , avverrà ’ultima Battaglia dei Cavalieri del Bene contro quelli del Male, risultato che noi sappiamo già, del ter mine del conflitto fra Luce e Tenebre, di cui anche per questo quando tutto si fermerà e avremo il “Tempo assoluto “, noi ne sappiamo la sorte; potrei parlarvi degli Sciamani del popolo Hopi che stanno prevedendo una quarta Apocalisse, ma credo di avere abusato della
vostra Ospitalità continueremo ……, volendo discorrere in un altro tempo, o Tempio, credo però più appropriato il termine “in un’altra occasione”.

Fr:. Aldo Cozzi R:.L:. Vittorio Bottego n.1545 Or:. Langhirano

Interventi di Giovanni Greco

Umberto Eco
Becchini
Woody Allen
Andreotti
Petrolini


Quando nel 2004 diedi ad Umberto Eco una copia del mio “Diario del malincomico” (Rusconi editore) lui mi diede l’idea di esorcizzare la morte raccogliendo le ultime parole di persone comuni o personaggi famosi perché, secondo lui, la morte è il tema più drammaticamente esaltante della vita. Cosa che ho fatto nel libro da poco pubblicato che si chiama “Morsi e rimorsi: il richiamo dell’aforista” col capitolo “Megghiu muriri ca mali campari”. Ma andiamo subito al punto perché i becchini si annoiano nei tempi morti: mortesse oblige. Petrolini stava male e un amico per consolarlo diceva: d’aspetto sta bene. E lui: d’aspetto sta bene, sono io che sto morendo. Il giorno in cui morì Ettore Petrolini nel 1936, un amico incrociò nelle scale il medico che lo aveva appena visitato che gli disse che le cose andavano benino. La cosa fu riferita a Petrolini che commentò, meno male almeno moro sano. Poco dopo però arrivò il prete con l’olio santo e Petrolini: “adesso sì che sono fritto”.

ALBERTO MANZI
Quando conobbi nel 1993 Alberto Manzi, il maestro degli italiani, mi mostrò una lettera della signora Margherita Popolizio che gli voleva far sapere che era merito suo che il piccolo figliolo, che non poteva camminare e non aveva le manine, vedendolo e ascoltandolo, aveva cominciato a scrivere tenendo in bocca la penna. In compenso, scriveva la madre, è intelligentissimo. E il maestro sapete chi è stato? Siete stato voi, il vostro volto, la vostra voce che gli hanno insegnato la cosa più bella, scrivere e leggere. Segue ciò che voi insegnate, pende dalle vostre labbra e non dimentica nulla di quanto voi dite. E’ un vostro alunno devoto che vi rimarrà grato per tutta la vita”. Il bimbo poi aveva scritto: “Vi voglio bene, firmato Popolizio Antonio”. Quando fu prossimo alla morte, Manzi allora sindaco di Pitigliano, mi confidò: “Da tanto tempo mi porto la morte nel taschino, e ogni tanto le chiedo, come va, come stai, sei già qui nei pressi? Sono pronto” Fino alla fine lavorò col sorriso sulle labbra.

Nguyen Thien
Di Giovanni Greco
Ricordiamoci di Nguyen Thien, il grande poeta vietnamita, che subì per le sue idee contro la dittatura 27 anni di carcere. Nguyen ricordava sempre il vestito color zafferano un po’ sbiadito che la madre indossava nei giorni di festa: “Ogni volta che siedi in preghiera per tuo figlio malato e prigioniero nella giungla il vecchio sbiadito vestito color zafferano si inonda di lacrime senza fine”. Gli negarono carta e penna e perciò creò oltre 700 brevi poesie imparandole a memorie e via via ripetendole agli altri poveri detenuti, che in tal modo traevano forza e coraggio, sperando un giorno di poterle pubblicare e così nacquero “Fiori dall’inferno”. “sono rimasto in silenzio quando il nemico mi torturava con il ferro e con l’acciaio, l’anima debole in agonia, le storie degli eroi sono per i bambini che ci credono. Io sono rimasto in silenzio perché mi dicevo: c’è qualcuno che è entrato nella giungla e che è stato assalito dalla bestia feroce così stupido da aprire bocca e chiedere pietà?”. Capodanno di un prigioniero 1961

“Notte nella giungla
Continua a piovere
I tetti gocciolano
Tremando di freddo
Ci abbracciamo le ginocchia
Il punto azzurro
Di una lampada ad olio
Il secchio dell’urina
Quello degli escrementi
Il letto pieno di insetti che mordono”.
La morte rappresentava per lui la prima notte di quiete.

TOTO’ e TROISI
Woody Allen: ho smesso di fumare, vivrò una settimana in più, ma in quella
settimana pioverà e poi andrò lo stesso al cimitero. E Andreotti sosteneva che le epigrafi dei cimiteri sono tutte uguali, tutti buoni e dove sono i cimiteri dei cattivi, e il suo dov’è? Ora che sono diventato vecchio, diceva Totò, quando percorro un cimitero ho l’impressione di visitare degli appartamenti, e allora – “nui simm seri appartnimm a morte”. Totò sosteneva che non bisogna mai rifiutare un posto di guardiano al cimitero con annessa abitazione: a cimitero donato non si guarda in bocca e poi in casa un silenzio … di tomba. Fondamentale per lui era morire al momento giusto perché le morti premature sono dolorose e quelle tardive sono incresciose. In morte di Troisi, Roberto Benigni scrisse: “la gioia di bagnarsi nel diluvio di iamme, ‘u saccio, mannaggia, ailloc, mò verimm, azz, era come parlare col Vesuvio, era come ascoltare del buon jazz, e non mi ha mai parlato di pizza e non mi ha mai suonato il mandolino”.

LEONARDO SCIASCIA
Leonardo Sciascia raccontò che da piccolo, a Racalmuto, la madre lo portò con sé a casa di un conoscente in fin di vita. E così nella camera da letto di un pover’uomo prossimo ad esalare l’ultimo respiro, fra decine di persone sedute e in piedi assisté a questa scena. Uno alla volta, molti astanti si recavano a sussurrare al moribondo, parole del tipo: ora che vai là, se vedi mio marito Gaetano, digli che gli voglio sempre bene, oppure se vedi mia figlia Concettina dille che la pensiamo ogni giorno, ecc. ecc. All’ennesimo invito, il moribondo, in un sussulto di vitalità rispose: “Vabbuò, ho capito, però scrivitammello ca sennò mu scordo”.

CORRADO ALVARO
Corrado Alvaro, per il quale il calabrese va parlato, abracalabria, amava dire che i calabresi hanno la pelle dura che ci si può affilare il rasoio.
Alvaro era convinto che la disperazione più grande di un uomo è che vivere
rettamente è inutile. Desidero leggervi una breve lettera di Alvaro che in occasione del Natale del 1930 inviò ai suoi familiari che con grandi sacrifici lo avevano mandato a studiare all’università di Milano. E il motivo è quello di ricordare da dove vengono molti di noi perché ci aiuta a capire chi siamo, chi siamo: “Caro padre, buon natale a voi e in famiglia, ai fratelli, a tutti. Ho ricevuto tutto e le scarpe anche. La berretta ce l’ho e i quaderni pure. Ho anche le tre sedie e la volontà di studiare e di appagare i vostri desideri. Ora ho tutto, non mi mandate niente più e fornitevi voi che la sera mangiate pane e ulive per me. E il torrone lo avreste dovuto tenere per voi”.

LEONE TOLSTOY
Quando giunse alla fine dei suoi giorni, non potendone più delle continue liti familiari, fra la moglie e i figli, per accaparrarsi le migliori quote della sua enorme eredità, convinse il suo medico personale a scappare di casa nottetempo. Andarono alla stazione e il medico fece per chiedere due biglietti per il primo treno disponibile, che andava alla stazioncina di Astapovo, e chiese due biglietti di prima classe, e Tolstoy seduto, stremato, gridò, terza, terza classe. E poi spiegò al suo fido amico: la mia classe è la terza, perché sono un uomo del popolo, perché ho sempre scritto per l’emancipazione del popolo e poi perché in prima ci avrebbero solo dato noia venendo a parlarci, mentre come vedi, caro amico, qui in terza tutti hanno rispettato la nostra intimità, nessuno è venuto a disturbarci, ci sorridono solo con dolce compiacimento, tant’è che persino quella donna col bambino discolo ha cambiato scompartimento per non dare noia. La vita è il treno non la stazione. Per non morire davvero spero così di essere riuscito a mettere radici nel cuore e nella mente degli altri.

LUIGI ZAMBONI
Luigi Zamboni, suicidatosi in carcere, aveva scritto in cella in prossimità della finestra “liberté, sureté, egalité” e la sua mamma Brigida, una sarta, che aveva con la sorella Barbara confezionato le bandiere e le coccarde tricolori per il figlio e i suoi compagni, venne poi rinchiusa nel carcere romano di S. Michele a Ripa, le requisirono i suoi beni, la sua casa di via Strazzacappe, il suo negozio al Canton dei fiori dove aveva venduto abiti usati, fu costretta a una vita da derelitta, fino all’umiliazione di dover mendicare nelle strade: “sono ridotta, disse, a mendicare il pane per vivere”. E quando a Bologna arrivò Napoleone e tutto cambiò, e si volle onorare davanti a una folla strabocchevole Zamboni e il suo compagno De Rolandis, nessuno pensò di invitare questa donna che assistè alla cerimonia per il figlio da un abbaino che dava sulla piazza. Quando morì l’11 maggio 1806 alle tre di notte, venne seppellita al campo E n. 2340 della Certosa e il comune pagò lire 3,10 per il funerale. Morire in modo nobile è una delle ricompense più grandi della vita. E tutt’ora non abbiamo forse ancora bisogno, soprattutto dentro di noi, di una sartina, simbolo di umiltà operosa, per perfezionare la nostra bandiera?

OROLOGI
Spesso la morte di un uomo coincide anche con la morte del suo orologio o dei suoi orologi che non verranno più ricaricati o finiranno sulla bancarella di un rivendugliolo. Alla fine della partita, come negli scacchi il re e il pedone, il proprietario dell’orologio e l’orologio, finiscono nella stessa scatola. L’orologio è un inno agli anni della giovinezza, è un legame col proprio padre, l’orologio conosce il nostro nome, ha condiviso frammenti delle nostre esistenze, è in buona sostanza un testimone della nostra vita.
Baudelaire scrisse: “Orologio dio sinistro, spaventoso, impassibile, i minuti, mortale pazzerello, sono pastoie da non farsi sfuggire senza estrarne oro. Il tempo è un giocatore avido che guadagna senza barare, il giorno declina, la notte cresce, la clessidra si svuota.” Certo è che attualmente gli orologi sono la mia personale macchina del tempo, con le lancette che quando vanno indietro si chiamano ricordi e quando vanno avanti si chiamano sogni. Per quanto mi riguarda sono stanco di vivere con me, ma poi penso che senza di me la mia vita mi sembrerà vuota e spero solo di sgattaiolare via almeno un’ora prima che il diavolo si accorga della mia morte. Su ogni tomba vi è la data della vita e della morte e in mezzo un trattino: e quella è la nostra vita. Tic, tac che fanno botta e risposta fra loro, tic magro come Stan Laurel, tac grasso come il nostro Oliver Hardy. Tic, tac, tic, tac … e il tempo è già volato via.


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