ABORTO, EUTANASIA: DUBBI AI CONFINI DELL’ESISTENZA
Un’esplorazione tesa a trovare una definizione più o meno condivisibile del significato della vita e della morte. E di ciò che le divide.
inserito il 16 10 2012, nella categoria Etica, Laicità, Religione, Società, Tanatologia, Tavole dei Fratelli
Tavola del fr:. A:. Mu:.
Ci sono drammatiche situazioni che si traducono in altrettanto drammatiche parole – aborto, eutanasia – parole che interrogano spietatamente le nostre coscienze, di uomini, donne, di massoni.
Interrogativi spietati perché non ammettono neutralità né indifferenza, ma esigono un esame di coscienza che non può esimersi da diventare anche presa di posizione nel contesto civile, morale, politico e religioso della società.
Un processo che spinge le nostre riflessioni nella zona più misteriosa della nostra condizione umana, quella posta ai confini dell’esistenza, o meglio dell’esistere e del non esistere. Un’esplorazione tesa a trovare una definizione più o meno condivisibile del significato della vita e della morte. E di ciò che le divide.
Quando comincia quando finisce una vita?
Sullo sfondo, in una simmetria speculare, due temi etici angosciosi: aborto ed eutanasia.
Un discrimine, almeno per l’aborto, io credo, potrebbe essere la qualità senziente.
Per dichiarare lo stato di morte è necessario accertare l’assenza assoluta di attività cerebrale (encefalogramma piatto), un criterio scientificamente, legalmente e moralmente accettato ovunque.
Dovrebbe valere quindi altrettanto per determinare o meno la liceità di un aborto: finchè l’attività cerebrale di un feto di poche settimane non è misurabile o attestabile, questa liceità, almeno sul piano legale e scientifico intendo, dovrebbe ritenersi scontata.
Molto diverso, ovviamente, è porre la questione su un piano morale e soprattutto religioso. Per un cattolico la vita è un dono di Dio, un dono, nella visione religiosa più integralista, sottratto perfino al libero arbitrio dell’uomo e della donna, cui non sarebbe concesso di interferire né sull’inizio né sulla fine di un’esistenza, perché in essa, dal concepimento fino all’ultimo respiro, è sempre presente lo spirito divino. Da qui poi la pretesa clericale e cattolica di porre il proprio imprimatur anche sugli ordinamenti civili della società e sulle prassi medico-scientifiche, che non riguardano certo solo i credenti.
E’ proprio questo continuo monito a ringraziare Dio per “averci creato” che mi inquieta particolarmente: dover cioè ringraziare Dio per la nostra nascita, e stando alle prediche del sacerdote anche per le nostre sofferenze (grazie Dio) per le nostre malattie (grazie Dio) e perfino per la nostra morte (grazie Dio), beh mi è davvero difficile accettarlo.
Da laico convinto, e da massone, dico che la morale cattolica deve certamente essere rispettata, e che non mi sognerei mai di influenzare né tanto meno criticare in alcun modo la scelta di chi per fede non abortirebbe mai (né invocherebbe l’eutanasia).
Ma sul piano civile (quello delle leggi dello Stato) non intendo nemmeno subire veti religiosi in materia: se il mio credo esistenziale mi induce a ritenere leciti l’aborto e l’eutanasia, pur con tutte le cautele del caso, non credo di dover sottostare a visioni religiose che non condivido e che non mi appartengono. Tanto più che non si tratta certo di scelte edonistiche, ma di opzioni estremamente dolorose, frutto di condizioni disperate e disperanti per chi le compie. Scelte che non si possono certo fare “a cuor leggero”.
Mi piacerebbe che lo stesso zelo nel battersi contro l’aborto, fosse impiegato dagli stessi cattolici, soprattutto dai gruppi più integralisti e conservatori che stanno crescendo negli Usa, nel battersi contro la pena di morte, la versione contemporanea degli antichi sacrifici umani, cosa che non fanno affatto, anzi…
Per quanto mi riguarda, per la vita che mi è stata concessa, penso di dover ringraziare solo i miei genitori.
Io credo che l’Esistenza, in tutte le sue espressioni cosmiche, dalla generazione dell’Universo al concepimento di una vita umana, non derivi dal disegno di alcun Grande Architetto, ma risponda alle leggi eterne (e queste sì, divine) di una Grande Architettura, nella quale forze, energie, vari stati della materia, particelle, elementi da sempre esistiti e sempre esistenti, ubbidiscano tutti alle stesse leggi fondamentali dell’amore e dell’empatia. Ovvero che convivano e si combinino fra di loro in un processo continuo ed eterno, e che la vita sia il risultato di combinazioni particolarmente felici, probabilmente rare, ma assolutamente replicabili in tantissime parti dell’Universo.
Credo quindi che, in base a ciò, tutto nasca, cresca ed infine appassisca e muoia, perché si generi nuova vita, nuova crescita, nuova morte. L’Universo stesso, io penso, subisce la stessa legge, che gli antichi avevano individuato nell’arcolaio delle Moire.
Ma per l’esistenza umana c’è una specificità aggiuntiva da considerare rispetto alle stesse leggi di natura. La condizione umana non è infatti solo una questione biologica, naturale. Con questo non intendo dire nemmeno che abbia requisiti soprannaturali (ricadrei nell’equivoco delle religioni).
Intendo dire che ogni atto dell’esistenza umana è da sempre ritualizzato ed interiorizzato nelle coscienze individuali e collettive della specie. E’ la consapevolezza e la ricerca di uno scopo per la propria esistenza che rendono la condizione umana diversa da quella animale.
Ebbene questa consapevolezza e questa ricerca richiedono sostanzialmente un assenso volitivo per ogni passo della nostra vita. Proprio per questo esistono le iniziazioni nelle quali esprimiamo il nostro assenso a queste trasformazioni (quelle naturali come ad esempio le prime manifestazioni della pubertà, e quelle della vita profana, come ad esempio il matrimonio, la laurea, ecc.). Tutto questo per renderci consapevoli dei nostri mutamenti, dei nostri nuovi stati fisici e di coscienza.
Credo che anche la nostra nascita e la nostra morte non si sottraggano a questa necessità di assenso.
Ecco allora che di fronte all’aborto ritengo che l’unica persona senziente, moralmente e fisicamente preposta a prendere una così terribile decisione non possa essere che la Donna.
Sta a lei decidere, ascoltando soprattutto il proprio cuore. Un diritto, un terribile diritto, che la Donna stessa si è guadagnato in millenni di storia, durante i quali ha assicurato la prosecuzione del genere umano, mettendo costantemente a rischio la propria vita ad ogni parto. Ricordiamoci quanto era frequente la morte delle puerpere, fino a pochi secoli fa, anche nel “progredito” mondo Occidentale, per le condizioni poco igieniche in cui avveniva la maggior parte delle nascite (almeno fino a che nel 1847 un giovane medico ungherese, Ignác Fülöp Semmelweis, non ebbe l’idea di far lavare le mani ai medici che trattavano le partorienti).
La Donna è sempre stata una donatrice di vita. E lo è certamente tuttora. Ma credo abbia tutti i titoli per discriminare quale vita essa intende donare. Anche per dare il massimo valore a questo dono. Ed una gravidanza non desiderata non credo sia il miglior dono.
Si obietta che l’aborto per talune donne, soprattutto le più immature, sia diventato quasi una scelta di routine, una specie di contraccezione in extremis. Di solito però chi fa questa obiezione è un maschio. Bisognerebbe chiedere sempre e solo ad una donna se abortire è così semplice e divertente.
Io sono sicuro che non sia mai una scelta fatta con leggerezza. E semmai siano sempre più pesanti i fattori esterni – familiari, economici, sentimentali – che la determinano. Credo poi anche che un figlio veramente amato, anche quando si trova allo stato di un semplice groviglio di cellule totopotenti, non verrebbe mai rifiutato.
E soprattutto credo che fino a quando il summenzionato grumo di cellule non acquisisce e manifesta attività cerebrale, esso non esprima alcuna individualità, faccia cioè ancora parte dell’indistinto crogiuolo di materia ed energia disponibile per la vita, ma non ancora vita. E’ come se facesse parte di un “inconscio biologico collettivo”, come se fosse un “sogno” di esistenza, un sogno che però, se la madre avverte invece come un incubo, può benissimo smettere di sognare. Ben sapendo che si tratterà comunque di un risveglio molto doloroso. E che quel sogno/incubo non potrà mai essere dimenticato.
Possiamo provare anche ad immaginare il contrario. Cioè che la donna voglia vivere il proprio incubo fino in fondo. Il fatto non sarebbe privo di conseguenze anche per il nascituro. La scienza ha infatti studiato le turbe fisiche e psichiche di tanti bambini che hanno vissuto la propria gestazione nel cosiddetto “utero fryo”, l’utero freddo di una gravidanza non desiderata.
Un discorso per certi versi analogo riguarda anche l’assenso umano alla propria morte. Ed in questo frangente anche la liceità dell’eutanasia.
Per apprezzare la vita, bisogna riconoscere e comprendere anche il senso della morte. Noi abbiamo perso l’attitudine ad ascoltarla ed accoglierla.
Prendo a prestito alcuni concetti di una mia tavola precedente, “La Morte Negata”: il celebre tanatologo Philippe Aries dice che gli antichi “sentivano” arrivare la propria morte, e si preparavano ad accoglierla, spesso radunando attorno a sé i propri cari, per una reciproca consolazione.
Oggi non è più così. Si muore sempre più spesso soli, dietro un paravento d’ospedale.
La morte non la si conosce più. Per questo la si esorcizza, con scarso successo, in migliaia di immagini cinematografiche, che ormai rendono indistinguibile la morte reale da quella virtuale.
Il già citato studioso della Morte nel Mondo Occidentale, Philippe Aries, spiega infatti che “la Morte ha rimpiazzato il sesso, come principale tabù della nostra società!”. E Pascal diceva: “E’ più facile accettare la Morte senza pensarci, che pensare alla Morte”.
All’uomo moderno che non sa più “prepararsi a morire”, è rimasta un’estrema illusione: l’ideale della “morte dignitosa”, la speranza di potersi spegnere rimanendo il più possibile coscienti, di non essere troppo trasfigurati fisicamente e moralmente dal dolore e dalla malattia, di avere il tempo di pronunciare solennemente le nostre ultime parole, in altri termini di poter “dosare” e “gestire” la propria morte (assistiti ovviamente dalla medicina moderna).
Purtroppo anche questa si rivela essere nella maggior parte dei casi una prospettiva del tutto illusoria, come ci svela il medico americano Sherwin B. Nuland in un saggio dal titolo significativo “Come muoriamo”: quasi mai la morte ci concede il privilegio di conservare tale dignità fino all’ultimo. Quasi sempre, invece, la morte ci dileggia rendendoci goffi, deformi, inebetiti… quasi a volersi vendicare con questo estremo affronto, dell’irriverenza con coi l’abbiamo trattata (e negata) durante la nostra vita.
Si fatica davvero ad intravvedere in queste afflizioni il compimento di un disegno divino (a meno che non lo si attribuisca ad una divinità sadica e perversa).
Io sono convinto che tutto questo riguardi esclusivamente la sfera umana, e rientri nella piena facoltà umana di autodeterminare la propria esistenza, ed anche la conclusione di essa.
Ecco perché ritengo perfettamente lecito consentire all’uomo di esercitare il proprio diritto ad una morte “dolce”, il diritto all’eutanasia. (salvo esprimere qualche riserva sull’applicazione di tale diritto su scala sociale, per il timore che il sistema possa innescare forme di eutanasia selettiva… “perché continuare a pagare pensioni e cure mediche a questi inutili vecchietti???”… l’eutanasia richiede innanzi tutto un sistema di riferimento estremamente etico).
Ma in questa dinamiche vedo l’eutanasia semplicemente come un assenso a fare della nostra vita un’opera compiuta, senza inutili e dolorosi strascichi.
In realtà tutti i massoni che raggiungono il grado di maestro compiono una sorta di eutanasia spirituale, tramite il rito di elevazione al III grado in cui danno il proprio assenso alla fine della propria esistenza.
Danno cioè l’assenso al rimpasto delle loro energie spirituali e dei loro resti materiali nel grande calderone dell’energia e della materia cosmica, rimpasto dal quale sorgeranno gli elementi per le vite successive.
Il maestro massone, dovrebbe attenuare sempre di più il proprio “io” più famelico, diventando esso stessom “cibo” intellettuale per gli altri e soprattutto per gli apprendisti; dovrebbe tornare alla dimensione più altruistica del “noi”, realizzando così l’uroboro di morte-nascita.
Anche nella condizione fetale siamo essenzialmente parte del “noi” della specie (tutte le esperienze sensoriali lo dimostrano: ad ogni latitudine e longitudine il nostro spirito si placa quando dondoliamo, oppure quando ammiriamo la luce soffusa di un alba o di un tramonto, o quando ascoltiamo la risacca del mare; sono i ricordi della nostra vita nel rassicurante grembo materno).
Poi improvvisamente veniamo espulsi dal paradiso terrestre del ventre materno… uno schiaffetto dell’ostetrica o del medico… ed ecco il nostro primo vagito, la nostra prima affermazione dell’”io” (non più “noi”), che non a caso, non è un sorriso, ma un piccolo grido di dolore… un piccolo presagio di ciò che ci attende.
Ho detto
A:. Mu:.
Ferrara, 16 Ottobre e:. v:.
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Giugno 17th, 2017 on 22:51
Di rado riesco ad imbattermi in articoli che cerchino di sviluppare un punto di vista laico su temi così delicati ed importanti, ho apprezzato.
Dicembre 21st, 2020 on 15:32
Ovviamente qui non é per niente cattolico.