IL CROCEFISSO: SIMBOLO “MUTO E SILENZIOSO”?

L'eposizione del Crocefisso nelle scuole e nei luoghi pubblici: il principio di laicità dello Stato e i suoi compromessi nel contrasto con il sentimento popolare.

inserito il 10 05 2012, nella categoria Esoterismo, Laicità, Religione, Simbolismo, Società, Tavole dei Fratelli

 

Tavola dei fratelli C:. Ba:. e R:. B:. 

Il 3 novembre 2009 la CorteEuropeadei Diritti dell’Uomo accoglieva il ricorso presentato dalla Signora Lautsi, la quale sosteneva che la presenza del crocifisso nelle classi frequentate dai suoi figli costituisse “un’ingerenza incompatibile con la libertà di coscienza e di religione e con il  suo diritto ad educarli in conformità dei propri principi religiosi e filosofici.”
Ad un osservatore straniero l’importanza di quella notizia sarebbe probabilmente sfuggita. Forse molti connazionali non si sarebbero neppure accorti se i crocifissi improvvisamente e silenziosamente fossero spariti dai luoghi pubblici. Ciò malgrado, quella decisione era destinata a suscitare nella società italiana un turbamento profondo.
La Corte europea aveva solo ricordato che lo Stato ha “il dovere di rispettare la neutralità nell’esercizio della funzione pubblica, in particolare nel campo dell’istruzione”: un precetto, questo, che dovrebbe essere scontato in una nazione che da ormai 30 anni ha definitivamente abbandonato il principio della religione di Stato.
La questione portata all’attenzione dei giudici di Strasburgo costituiva l’epilogo forse più clamoroso di una delle tante iniziative volte a contestare la legittimità dell’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici. La causa partiva dal 2002, quando la signora Lautsi si rivolse al TAR del Veneto impugnando la decisione del consiglio dell’istituto di una scuola di Abano Terme.

Ma quali sono, nell’ordinamento italiano, le leggi che prescrivono la presenza del Crocifisso nelle aule? Dopo tutto il clamore che ha destato la vicenda negli ultimi anni, la risposta alla domanda può risultare sconcertante: nessuna legge, in verità!
Come in un gioco di scatole cinesi, l’esposizione del crocifisso si fa derivare da un Decreto legislativo del 1994, il quale però parla genericamente di arredi scolastici senza entrare nel dettaglio. Da dove si desume allora che il simbolo sacro debba far parte degli arredi profani? Si deve far riferimento — risponde la giurisprudenza — a un Regio Decreto del 1928 e ad uno precedente del 1860 i quali menzionano, appunto, il Crocifisso.

Tuttavia, prima di decidere la causa Lautsi il TAR Veneto passò la scottante questione alla Corte Costituzionale, nel dubbio che i citati articoli potessero risultare non conformi “al principio della laicità dello Stato”. C’era però un problema: il controllo di legittimità costituzionale può essere invocato solo in relazione a norme aventi forza di legge, mentre il Regio Decreto è una disposizione regolamentare, di rango inferiore. Il TAR, con una pregevole argomentazione, si riportò a due precedenti decisioni della stessa Corte secondo le quali, ferma restando l’inammissibilità del controllo diretto sui regolamenti, veniva ritenuto ammissibile il controllo indiretto nei casi in cui una legge trova applicazione attraverso specificazioni di natura regolamentare.
Ma a dispetto dei precedenti,la Corte Costituzionale dichiarò la questione inammissibile. La domanda così ripudiata sul piano del diritto avrebbe potuto essere esaminata sul piano politico; tuttavia, l’ordinanza non conteneva alcun richiamo al Parlamento, nessun accenno al rapporto tra laicità e simboli religiosi nei luoghi pubblici.

D’altra parte, se sul piano giuridico la questione si presentava spinosa, sul piano politico poteva essere esplosiva. Il rapporto fra il sentimento popolare ed il crocifisso si è venuto a sedimentare lentamente nei secoli, nutrendosi di identità campanilistiche, nostalgie ataviche, rivendicazioni sociali e tradizioni familiari in una specie di sincretismo politico-cultural-religioso. Rimestare questo sedimento rappresentava un rischio che nessuna parte politica avrebbe affrontato volentieri.

 
UNA BATTAGLIA Dl PRINCIPIO


Con molto anticipo sulla madre di Abano Terme, negli anni ‘80 una docente di italiano presso un istituto di Cuneo aveva sollevato la questione del crocifisso nelle aule che frequentava, sollecitando il preside a rimuoverlo «in ottemperanza alla lettera e allo spirito del nuovo Concordato firmato dall’Italia con il Vaticano nel 1984».

 
Il caso della professoressa non aveva ottenuto alcun pronunciamento dirimente, né del Ministero né dell’autorità giudiziaria. In compenso la sua battaglia aveva dato luogo a significativi riflessi di stampa. Un articolo si impose sopra di tutti per la particolarità della sua provenienza: era stato pubblicato sulle pagine dell’«Unità», testata ufficiale del Partito comunista, e l’autrice era una notissima scrittrice di origini ebraiche: Natalia Ginzburg.
Questo articolo fu il precursore di quasi tutte le argomentazioni che nei decenni successivi avrebbero sostenuto il crocifisso pubblico. Eppure, a rileggerle con obiettività queste motivazioni rivelano i loro limiti.
Scriveva la Ginzburg «Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. È muto e silenzioso. C’e stato sempre. (…). E ancora «Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi  evocano le sue sofferenze.» «il crocifisso fa parte della storia dei mondo (…)»

 
Tralasciando alcune suggestioni dell’autrice, alcune affermazioni meritano una riflessione:

• Il crocifisso è veramente un simbolo “muto e silenzioso”?
È facile smascherare la fallacia di questa impostazione se solo si pensa alla venerazione con cui generazioni di fedeli si sono inchinati davanti ad esso e lo hanno appeso nelle proprie case, sopra i letti. In fondo, nulla è più offensivo da dire riguardo ad un simbolo religioso che definirlo muto e silenzioso. A coloro che hanno la fede per ascoltarlo, il crocifisso parla, anzi urla. Ma sostenere che il crocifisso sia un simbolo muto e silenzioso non è offensivo soltanto per i cristiani: è offensivo anche per chi cristiano non è e ricorda come, nella storia, l’urlo del crocifisso sia stato raccolto dalla Chiesa alla stregua di una dichiarazione di guerra. Del resto, se davvero le cose stessero come descritte dalla Ginzburg, non si capirebbe neppure il rovescio di questa vicenda. Perché la guerra del crocifisso non è stata combattuta soltanto dai cristiani contro gli infedeli: è stata combattuta anche dagli infedeli contro i cristiani. Nel momento in cui l’immagine del Calvario è divenuta arma di guerra, inevitabilmente si è trasformata in un obiettivo di rappresaglia.

• È vero che il crocifisso “c’è stato sempre”?
li crocifisso non è appeso da sempre sui muri delle nostre scuole: ci è arrivato in un momento preciso della storia d’Italia.
Dopo il 20 settembre 1870, con la fine dello Stato Pontificio, al Papa fu lasciata la zona dei palazzi vaticani. L’anno seguente, con la c.d. Legge delle Guarentigie, fu riconosciuta al Vaticano la piena indipendenza e un appannaggio annuo, ma Pio IX aveva comunque già scomunicato re, governo e parlamento. La c.d. “questione romana” si ricompose solo nel 1929, quando il capo del governo di allora, Benito Mussolini, stipulò l’accordo noto come Patti Lateranensi, comprendente un “Trattato” con il quale nasceva lo Stato del Vaticano e un “Concordato” con cui la religione cattolica veniva riconosciuta come «sola religione dello Stato».
Ma quale era, veramente, il rapporto fra fascismo e Chiesa cattolica?
Nel suo libro “Il crocifisso di Stato” Sergio Luzzatto ricorda che Curzio Malaparte, nello slancio iperbolico della narrazione agiografica, descriveva la marcia su Roma come la «sospirata, meravigliosa rivincita dell’Italia migliore – cattolica, terragna, antimoderna, anticivile — – sull’Italia peggiore, laica, cittadina, esterofila, viziosa». Dai quattro angoli della penisola si era mosso verso Roma «l’esercito agreste, lento e solenne, all’assalto delle città moribonde, recando innanzi le immagini dei Santi le mensoline con gli amuleti, i paramenti sacri (…) gonfaloni selvaggi e stendardi paesani con le scritte Virgo virginum, Christus imperat, e i grandi Crocifissi trionfanti».

Se non i grandi crocifissi trionfanti dell’immaginosa prosa di Malaparte, la marcia su Roma consegnò all’Italia dei Ventennio i piccoli crocifissi sul muro: quegli stessi crocifissi che la legge Casati del 1859 aveva prescritto come arredo obbligatorio nelle scuole elementari.

Ma nell’Italia post-marcia il trionfo murale dei crocifissi non riguardò solo le scuole elementari. Via via, la prescrizione di esporre il crocifisso venne estesa a tutti gli uffici pubblici (ordinanza del 1923), agli istituti di istruzione media (30 aprile 1924), alle scuole di ogni ordine e grado, alle aule di udienza dei tribunali (circolare del 1926).

 
È vero che il crocifisso “fa parte della storia del mondo”?
Croce e il crocifisso non sono la stessa cosa. L’una e l’altro costituiscono due icone fondamentali nella storia del cristianesimo, ma entrambe le icone possiedono appunto, – come tutti i simboli, – una storia. All’inizio dell’era cristiana il crocifisso non era identico all’ immagine che ne abbiamo oggi. I crocifissi hanno conosciuto, nell’Occidente cristiano, un’evoluzione tanto profonda quanto significativa. Né si ha ragione di sorprendersi per questo: poiché al pari di ogni altro simbolo, il crocifisso è qualcosa di costruito, di interpretato, e non ha avuto lo stesso significato nelle varie epoche.
Fino all’anno Mille e oltre, fu la croce a dominare incontrastata, senza che si avvertisse il bisogno di completare l’immagine del Sacrificio con quella della Passione. La nuda croce bastava come segno del Calvario. Anziché un memento grafico della morte di Gesù, i cristiani del primo millennio trovarono conforme alla loro sensibilità una rappresentazione allegorica della maestà di Cristo.
Fu a partire dal Duecento, e poi soprattutto nel Trecento, che le chiese d’Occidente videro imporsi l’icona di un Cristo sempre più drammaticamente umano. Cosi l’evoluzione simbolica del crocifisso poté corrispondere a un’evoluzione generale della sensibilità cristiana, che spingeva i chierici come i laici a immedesimarsi nelle sofferenze di Gesù. Non per caso, risale a quest’epoca la forma devozionale della via crucis, come reiterazione rituale del cammino sul Golgota.

L’età compresa fra il 1100 e il 1300 circa, durante la quale il crocifisso si affermò nel vissuto cristiano come l’arredo sacro per eccellenza, è anche l’età delle Crociate.

 

IL CROCIFISSO come SIMBOLO DELL’ITALIA

Qualcuno ha detto che il crocefisso è simbolo irrinunciabile dell’identità e della storia d’italia.

 
Ma, a dire il vero, per trasformare l’Italia da “mera espressione geografica” (come diceva Von Metternich) in Patria, i patrioti del Risorgimento combatterono più che altro “contro” la croce, contro quella dei sanfedisti del cardinale Ruffo, e contro il Papa.
E come non ricordare il principio cardine del Risorgimento, “libera Chiesa in libero Stato”, ripreso dal conte Cavour in occasione dei suo primo intervento al parlamento, il 27 marzo 1861? Non possiamo rinnegare la storia: l’Italia non nasce sotto l’insegna del crocifisso, ma anzi combattendo – tra gli altri – contro la Chiesa cattolica.

Ben altra cosa è dire che “il groviglio continuo di simboli religiosi nello spazio pubblico, e da parte dello Stato, è accettato dalla popolazione secolarizzata ancora come parte della identità nazionale” come si espresse il Prof. Joseph H.H. Weiler alla Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo, il 30 giugno 2010.
Ma per esporre il pensiero di Weiler dobbiamo tornare alla causa Lautsi e al ricorso presentato dal governo italiano all’indomani della sentenza CEDU del 3 novembre 2009.

 

IL RICORSO DELL’ITALIA E L’INTERVENTO DEL PROF. WEILER

 

Il governo italiano presentò ricorso contro la sentenza della CEDU del 2009. Ai giudici di Strasburgo l’Italia chiedeva di riconoscere un’autonomia dei singoli paesi europei nel regolare materie che investano i sentimenti diffusi delle rispettive popolazioni.
Da parte delle massime autorità statali, veniva richiamato «il generale principio di sussidiarietà, che ha finora costantemente ispirato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo».

 

Il richiamo ai principio di sussidiarietà (in basse al quale l’U.E. interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri…) non potrebbe giustificare la violazione di diritti fondamentali dell’uomo da parte di uno Stato: il punto della questione era dunque stabilire se il crocifisso sui muri contrastasse con il diritto di libertà religiosa.
Nella causa questa volta non partecipano solo l’Italia e la signora Lautsi: diversi Stati del Consiglio d’Europa (Armenia, Bulgaria, Cipro, Grecia, Lituania, Malta, Federazione Russa e San Marino) intervennero spontaneamente a supporto dell’Italia, evidentemente preoccupati per la possibilità di preservare la propria tradizione in fatto di rapporti tra religione e stato.

 
A rappresentare le loro istanze fu chiamato il Prof. Joseph Halevi Horowitz Weiier, professore di diritto pressola New York University.

Weiler, nel suo intervento, sostenne che nella prima decisione della Corte (quella che vide l’Italia condannata) possono individuarsi due fatali errori concettuali, il primo dei quali è il convincimento che per dovere di “neutralità” gli Stati debbano garantire, oltre alla libertà di religione, anche la libertà dalla religione.
«L’obbligo di neutralità — – osserva il Professore di religione ebraica  -— rappresenta un tratto costituzionale comune dell’Europa, che è contro-bilanciato da grande libertà quando si tratta della religione o dell’eredità religiosa nell’identità collettiva della nazione e nella simbologia dello Stato. Così, ci sono Stati in cui la laicité è parte della definizione di Stato, come per la Francia, per i quali non ci può essere un simbolo religioso in uno spazio pubblico. Ma nessuno Stato ha l’obbligo di abbracciare la laicité. Infatti in Inghilterra vi è una Chiesa di Stato, il cui Capo dello Stato è anche Capo della Chiesa, nella quale i leader religiosi sono anche membri d’ufficio del Legislativo, la bandiera fa mostra della Croce e l’inno nazionale è una preghiera a Dio di salvare il Monarca, e di dare a lui o a lei la Vittoria e la Gloria ».
Questo ragionamento porta Weiler a concludere che il groviglio di simboli religiosi nello spazio pubblico è accettato come parte della identità nazionale. Potrebbe anche essere che, un giorno, la popolazione britannica voglia liberarsi della Chiesa d’Inghilterra, ma questo è compito loro. Allo stesso modo, continua il Professore, «Il popolo italiano può democraticamente e costituzionalmente scegliere di avere uno Stato laique e non è una questione per questa Corte se 11 crocefisso sui muri sia compatibile o meno con la Costituzione italiana, bensì per la Corte italiana ».

 
Trovo che il nocciolo della questione stia tutta in quest’ultimo passaggio del Prof. Weiler. il punto è che l’Italia del dopoguerra ha già scelto la via della “laicité”: in questo senso, la sentenza della CEDU del 2011 non può considerarsi una vittoria per lo Stato italiano, almeno fino a quando non sarà affrontata la questione della coerenza con il dettato costituzionale.

Ben diversa è infatti la situazione di Stati come il Regno Unito (dove, come ha sapientemente ricordato Weiler, il Capo dello Stato è anche Capo della Chiesa) rispetto all’Italia. Da noi il principio di religione di Stato contenuto nello Statuto albertino del 1848 fu di fatto abbandonato con la Costituzione del 1948 che all’articolo 7 stabiliva il principio di indipendenza reciproca di Stato e Chiesa cattolica.

In seguito, con la revisione dei Patti Lateranensi del 1984, tale principio fu reso più esplicito. Non solo si riaffermava l’indipendenza reciproca della Repubblica dalla Chiesa cattolica, ma con un protocollo addizionale firmato contestualmente, la Santa Sede e la Repubblica italiana chiarivano che “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.

 
Inoltre, la portata dei principi costituzionali è stata inequivocabilmente fissata dalla Corte Costituzionale fin dalla sentenza 203 del 1989; in tale occasione il giudice delle leggi ha chiarito che i valori di libertà religiosa hanno una duplice specificazione, nel senso che (1) i cittadini non possono essere discriminati per motivi di religione e che (2) non deve essere neppure limitata “la libertà negativa di non professare alcuna religione”.

 
Ha dunque perfettamente ragione Weiler nel dire la questione del crocifisso sui muri pubblici della Repubblica è materia perla Corte Costituzionale italiana: ma perché allora,la Corte nel 2004 se ne lavò le mani (molti commentatori parlarono in quella circostanza di sentenza “pilatesca”)?
Comunque sia, con la sentenza del 18 marzo 2011 i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che nel rendere obbligatoria la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, la normativa italiana attribuisce alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico. Ciò malgrado, hanno poi concluso, questo non basta a integrare un’opera d’indottrinamento paragonabile ad un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose.

La Corteeuropea ripiega in tal modo entro limiti più stretti la propria giurisdizione: al di là di quel limite entra in gioco la politica nazionale.

Sui media la notizia è stata riportata in termini trionfalistici. Sfugge ai più che nella motivazione della decisione c’è il riconoscimento di una preponderanza data dall’Italia alla religione cattolica, una preponderanza che se pur non configurasse violazione dei diritti umani contrasta comunque con i diritti costituzionali interni. La critica che il Prof Weiler faceva alla sentenza CEDU del 2009 era valida solamente nel ristretto ambito in cui doveva giudicarela Corte Europea.
Resta così il fatto che, in Italia, il crocifisso, rimane inchiodato alle pareti delle scuole, e non è chiaro se in forza di un obbligo regolamentare ante Constitutionem oppure di una libertà di arredamento delle aule scolastiche oppure ancora – secondo l’ardita costruzione dell’Avvocatura dello Stato – quale «vessillo della Chiesa cattolica, unico alleato di diritto internazionale nominato in Costituzione».

 
E’ un esito che lascia perplessi. Ridurre il segno di un’escatologia ad arredo scolastico o a gonfalone rasenta la blasfemia. Così come secolarizzare la valenza simbolica del crocifisso, pur di confermarne l’esposizione nelle aule scolastiche, ne banalizza il significato più autentico.

La rendita di posizione che, a tale prezzo, si vuoi difendere deve allora valere molto.
A questo riguardo è stata avanzata un’ipotesi. La routine conformistica della presenza di un simbolo cui si presta scarsa attenzione, che non richiede – fuori dal suo contesto – interrogazione o raccoglimento, appare ai più un’esposizione ininfluente. E tuttavia quel gesto «è anche rituale, e sotto questo profilo comunica moltissimo, perché palesa ed esibisce a tutti l’appartenenza/sottomissione di tutti (1) al codice essenziale cui quel simbolo rinvia». In tal modo, attraverso la forza dell’abitudine, quei simbolo perde progressivamente il suo autentico valore escatologico ma acquista un possente significato ideologico di appartenenza confessionale. Condizione inaccettabile, «per chi resiste alla tentazione di trasformare in universali i propri simboli particolari ma preferisce piuttosto ricercare l’universale nella profondità della coscienza della propria condizione umana e nella ricchezza e pluralità dei simboli degli uomini» (2).


IL CROCIFISSO come LINEA MAGINOT

 

All’indomani della decisione della CEDU dei 2009 il quotidiano La Padania titolava a nove colonne: “Non moriremo islamici”. Accanto c’era una vignetta che raffigurava il Cristo crocifisso mangiato da un serpente.
Eppurela Lega non sembra volersi candidare a partito di riferimento della fede Cattolica, se solo si pensa ai frequenti scontri con Vescovi e Cardinali ogni volta che questi ultimi hanno richiamato i fedeli ai doveri di solidarietà e di fratellanza verso quei disperati che approdano clandestinamente sulle coste italiche. Né appaiono coerenti con gli insegnamenti liturgici, certi riti pagani, dal ringraziamento al dio Erìdano sulle pendici del Monviso a! matrimonio celtico di Roberto Calderoli.

Con la forma di una difesa della fede, passava in quel titolo un messaggio di tutt’altro segno.
La fuga continua di diecine di migliaia di diseredati e di disperati verso l’Italia e verso l’Europa ha comportato e comporta inevitabilmente delle fratture all’interno delle popolazioni autoctone. Il fiorire di sentimenti xenofobi in una larga parte di esse è una conseguenza facilmente prevedibile e forse anche comprensibile.

Non intendo qui affrontare il complesso tema dell’immigrazione e dell’integrazione, ma voglio esporre una riflessione personale: mi sembra che, fra le molteplici etnie e culture che compongono i flussi migratori in ingresso, quelle che più spaventano siano quelle di fede islamica.

Sospetto infatti che l’italiano medio si senta particolarmente vulnerabile di fronte all’avanzata dell’Islam. Da uomo dell’occidente, europeo quel tanto che fa comodo, battezzato secondo rito cattolico pur mantenendo un’osservanza “creativa” dei precetti evangelici, egli percepisce che un Islam austero, dogmatico, claustrale, potrebbe costituire il controcanto perfetto al suo mondo agiato, libero, globalizzato; egli ha quindi ragione di temere che — per paradosso — questo controcanto possa risultare ammaliante quanto quello delle sirene per Ulisse.

Ecco allora che il crocifisso non è più l’icona della religione, non è più il simbolo della cultura e delle tradizioni nazionali: ora la croce, con un prodigioso tuffo in un passato che si credeva lontano, ritorna ad essere uno scudo.

I novelli crociati vedono nel crocifisso una invalicabile linea Maginot dietro la quale potersi difendere dalla minaccia dello straniero che avanza, dentro la quale esorcizzare i timori, le incertezze e i drammi di una crisi economica di cui non vedono la via d’uscita.

Pur identificandomi con l’italiano medio e pur condividendo in parte questi timori, ritengo tuttavia che la battaglia dietro il crocifisso rappresenti una strategia difensiva fallimentare al pari delle trincee sulla linea Maginot.

Si tratterebbe di contrastare il “nemico” sul suo stesso campo, usando lo stesso tipo di arma, quello della fede, ma impugnando da parte nostra un’arma contraffatta, manipolata, un surrogato di ormai improbabile credibilità.

Perché nello stesso momento in cui si sostiene che il crocifisso non è icona religiosa sacra bensì (per dirla con il Ministro Gelmini) “simbolo irrinunciabile dell’identità e della storia d’Italia” oppure (secondo Natalia Ginzburg) un simbolo “muto e silenzioso” oppure ancora (come da seconda pronuncia CEDU del 2011) “un simbolo essenzialmente passivo”, in quello stesso tempo si rinnega l’efficacia in senso religioso di quel simbolo.

Raimon Panikkar, nel suo libro “La religione, il mondo e il corpo” distingue identità da identificazione, intendendo con identità la scoperta di quello che ciascuno di noi è in maniera unica e non ripetibile né duplicabile, il volto di ciascuno che si svela nell’incontro senza pregiudizi con l’altro, e per identificazione il riferimento di appartenenza che può dare sostegno e sicurezza ma anche sostituire il proprio volto autentico con una maschera predeterminata.

«Il dialogo religioso — osserva — non è un confronto di dottrine, ma usa piuttosto il linguaggio del simbolo. Mentre la dottrina si basa sul riferimento «oggettivo» dell’ideologia che la sostiene, il simbolo non è oggettivo, ma relazionale: è la relazione fra il simbolo stesso e ciò che è simbolizzato a costituirne la forza espressiva. Il simbolo, per essere efficace, necessita del credo nel simbolo stesso: un simbolo in cui non si crede non rappresenta più ciò che simbolizza, ma è un semplice segno convenzionale. Il simbolo non si può dunque assolutizzare, perché è il principio del pluralismo e il linguaggio della mistica. Pluralismo significa che c’è una pluralità di significati, ognuno dei quali permette di accedere al riferimento simbolizzato (per esempio molte tradizioni religiose utilizzano la stella del mattino come simbolo della luce chiara che appare, stabilendo nel contempo con quel simbolo diverse modalità interpretative). Quando la religione perde il proprio lato mistico, tende a diventare ideologia e il linguaggio con cui si esprime da simbolico diventa logico. Mentre il linguaggio simbolico è plurale e relazionale, il linguaggio logico è univoco e autoreferenziale».
 

 

LA VERA OFFESA

 

Avanti la Grande Camera della CEDU il Prof Joseph Weiler sostenne anche che l’offesa di qualcuno è inevitabile, perché se il crocifisso resta possono sentirsi offesi i laici, mentre se viene tolto possono sentirsi offesi i credenti.

L’argomento non mi convince, e trovo sorprendente che sia stato invece proprio questo passaggio a riscuotere il maggior successo mediatico. Ho citato tuttavia questa tesi per introdurre e proporre un diverso approccio al problema, un approccio che riguarda specificamente l’Italia e che, per tale caratteristica, necessariamente esulava dalla materia trattata da Weiler.

 
Se dobbiamo salvaguardare i valori dell’illuminismo come identità culturale che più rappresenta la storia dell’Europa, allora dobbiamo prestare particolare attenzione a non tradire quei valori.

Possiamo anche essere liberi, come ha riconosciuto la Grande Camera della CEDU, di essere uno Stato “NON laique”, ma dobbiamo farlo in modo consapevole, senza adulterare la verità per fare entrare di sottecchi dalla finestra ciò che abbiamo solennemente estromesso dalla porta.

La decisione di mantenere il crocifisso sui muri non può restare appesa ad ambigue disposizioni e circolari di epoca fascista passate indenni sotto una Costituzione distratta.

 
La Verità è un elemento imprescindibile della dignità e dell’orgoglio di popolo. Non c’è offesa più grande, per un laico come per un credente, del vedere negata l’evidenza della ragione, anche quando fa derivare, dai principi costituzionali accettati, conseguenze logiche che non piacciono ad una contingente maggioranza.

 
Ho detto


C:.Ba:. e R:.B:.

 

Note

1)  così, in altro contesto, P. Flores D’Arcais, Etica senza fede, Einaudi, Torino 1992, 74
2)  R. Toniatti, La vera sfida per i laici, in Corriere del Trentino, 23 dicembre 2004

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3 Comments for this entry

  • giovanni82

    “Se dobbiamo salvaguardare i valori dell’illuminismo come identità culturale che più rappresenta la storia dell’Europa…”

    L’identità culturale dell’Europa si basa sul Cristianesimo, non sull’illuminismo…

    L’Illuminismo è arrivato a fine 700, mentre il Sacro Romano Impero, l’unico regno che ha realmente unito l’Europa, è di formazione Cristiana…

  • giovanni82

    In base a questa semplice assunzione storica, il Crocifisso ha RAGIONEVOLMENTE senso che ci sia.

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