DI SANGRO: IL TRADIMENTO CHE SALVO’ I MASSONI

inserito il 23 01 2022, nella categoria Alchimia, Arte, Esoterismo, Magia, Scienza, Storia, Tavole dei Fratelli

Il ritratto del principe ad opera del De Mura

(a:. mu:. ) – Dopo tre secoli, i suoi occhi sono tornati a scrutare la sua mitica Cappella ed a compiacersi dei messaggi “velati” che ancora racchiude, come lasciti misteriosi del suo sapere iniziatico e segreto.

Lo sguardo, indagatore e compiaciuto, è quello del Principe Raimondo Di Sangro, antico proprietario della stessa Cappella Sansevero, dove vi ha fatto ritorno sotto forma di immagine pittorica, decisamente rara, realizzata nel 1750 dall’artista partenopeo Francesco De Mura; tutto questo grazie alla recente acquisizione effettuata dalla Fondazione che gestisce lo storico edificio e ne cura il Museo e le opere custodite al suo interno; acquisizione con la quale si è degnamente coronato il 310°Anniversario della nascita dello stesso Principe Raimondo, risalente al 30 Gennaio 1710, a Torremaggiore nel Tavoliere delle Puglie.

In realtà il quadro recuperato del Principe non è stato collocato all’interno della “sua” Cappella, bensì all’uscita della visita turistica, nell’area shopping con cartoline, gadgets e pubblicazioni riservata agli stessi turisti, forse per permettere allo stesso Principe di osservare la disincantata modernità commerciale dei nostri tempi. Chissà che ne penserebbe?!

All’interno della Cappella resta l’immagine del Principe, dipinta anch’essa in ovale, posta sopra la sua lapide funeraria (in realtà un cenotafio, perché  il corpo del Principe è andato “disperso”, un altro mistero che lo circonda).

Ed a proposito di misteri, la stessa lapide ed il ritratto sovrastante del Principe  ne evocano altri due: il primo riguarda la scritta della stessa lapide, totalmente in rilievo marmoreo anziché essere incisa come in tutte le lapidi tradizionali. Sembra quasi stampata a caratteri tipografici in rilievo, ma anche questo innovativo sistema, probabilmente chimico, è  rimasto un segreto del Principe tuttora inviolato.

UN MISTERO ALLA DORIAN GRAY

L’altro mistero legato all’immagine di Raimondo di Sangro presente all’interno della Cappella Sansevero riguarda lo strano deterioramento della pittura, strana rispetto alla perfetta conservazione di tutti gli altri affreschi e pitture presenti nella stessa Cappella, in particolare quella, anch’essa ovale, del figlio Vincenzo, posta specularmente nella parete opposta di fronte all’immagine consunta del padre. Il ritratto del figlio del Principe appare ancora nei suoi vividi colori, come se fosse stato appena dipinto. Sembra quasi che, nei secoli, i suoi pigmenti si siano rinvigoriti assorbendo quelli che risultano consunti  nell’immagine del padre posta di fronte ad esso. In altre parole una riedizione partenopea del magico mito di Dorian Gray.
Il ritratto interno del Principe

Comunque il quadro appena ritrovato del settimo principe di Sansevero lo rappresenta in un’originale ed inconsueto formato ovale (e come potrebbe non essere fuori dall’ordinario un’immagine del più anticonvenzionale e controverso personaggio del Settecento napoletano), con tutti i simboli e gli ornamenti della sua condizione nobiliare: fascia rossa e ricco manto, insegne dell’Ordine di San Gennaro, la corazza di colonnello del Reggimento di Capitanata, i colori azzurro ed oro dello stemma dei Di Sangro.

Il portamento e l’espressione, fiera ed al tempo stesso gioviale, si raccordano perfettamente con altri ritratti già noti di Raimondo Di Sangro, quali l’acquaforte di Ferdinando Vacca e la raffigurazione su rame di Carlo Amalfi. Ma è soprattutto la bonarietà dello sguardo con cui è stato ritratto che si concilia più strettamente con la descrizione dei suoi contemporanei, riportata dal sacerdote “illuminista” Antonio Genovesi: “Signore di corta statura, di gran capo, di bello e gioviale aspetto, filosofo di spirito, molto dedito alle meccaniche, di amabilissimo e dolcissimo costume, studioso e ritirato, amante la conversazione di uomini di lettere

Insomma l’immagine di un esponente della più alta nobiltà napoletana– il suo casato poteva infatti fregiarsi del titolo di “Grandi di Spagna” – ma al tempo stesso di un intellettuale anticonformista, per lo più assorto nei suoi studi e nelle sue opere, aperto comunque ai rapporti umani di ogni condizione, non disdegnando anche la frequentazione di chi non aveva natali aristocratici, i borghesi, arrivando a sostenere che i veri nobili sono “coloro che mostrano ingegno virtù ed onestà”.

Per questo fu spesso circondato da maldicenze e antipatie da parte della sua stessa casta nobiliare, sempre avversato del clero ed anche da parte dei cosiddetti intellettuali di regime. Tutti costoro, nonostante la manifesta benevolenza del Re nei suoi confronti (tanto da affidargli delicati incarichi militari, nella riorganizzazione e ammodernamento dell’esercito), mal sopportavano i suoi atteggiamenti modernisti e l’enfasi misterica delle sue opere, tacciandolo di essere un ciarlatano “credulo nelle antiche fandonie sulla magia alchimistica”.

Il popolo napoletano da parte sua lo rispettava pur con una certa diffidenza; si sbalordiva per le sue mirabolanti invenzioni (come quando nel 1770 apparve più volte su una “carrozza marittima” di sua invenzione che pareva solcare il mare a grande velocità trainata da autentici cavalli, con tanto di cocchiere; in realtà i cavalli erano di sughero, e la carrozza si muoveva grazie a pale a ruote nascoste nella sua chiglia), ma al tempo stesso non lo capiva ed in parte lo temeva. Una diffidenza che traspare dalla descrizione data dai suoi contemporanei alla sua famosa Cappella Sansevero ed alle “strane statue” che conteneva: “una donna che da sotto un velo di marmo trasparentissimo ti sbatte in faccia due zizze belle tonde che Lui ha chiamato ‘La Pudicizia’, o quel povero Cristo di pescatore finito nella sua stessa rete che si dibatte per liberarsi e che ha chiamato ‘Il Disinganno’”.

La volgarità profana di quelle insinuazioni sulle statue della Cappella Sansevero non poteva comunque minimamente lambire il simbolismo segreto di ciò che rappresentavano per il Principe Di Sangro e per coloro che, come iniziati, erano in grado di coglierne le intime suggestioni.

Le 18 statue contenute nella Cappella si riferiscono quasi tutte a personaggi del Casato, ma nell’insieme costituiscono un vero e proprio “catechismo simbolico” decifrabile solo da chi ha dimestichezza con il linguaggio ed i segreti iniziatici.

L’interno della Cappella Sansevero

LA PUDICIZIA E IL DISINGANNO

Nella “Pudicizia”, che rappresenterebbe la madre del Principe, Cecilia Caietani d’Aragona, e nelle sculture dell’altare maggiore disposte sopra il bassorilievo della “Deposizione” vi si intravvedeva infatti un messaggio “Rosa+Croce” (in particolare le due teste, maschile e femminile, premessa della ricerca di perfezione attraverso il superamento della separazione dualistica, ovvero il ritorno all’androgino primordiale).

Un ulteriore messaggio iniziatico della Cappella Sansevero è legato ad un’altra statua “familiare”, quella dedicata ad Antonio Di Sangro, padre del Principe, statua realizzata dal genovese Francesco Queirolo e denominata “Il Disinganno”. Rappresenta un uomo intrappolato da una rete (le false verità) da cui cerca di liberarsi con l’aiuto di un putto alato (l’intelletto necessario per emanciparsi dalle menzogne della vita profana). L’elemento artistico che impressiona particolarmente è proprio la fattura della rete che sembrerebbe scolpita a parte ed addossata poi alla statua dell’Uomo. Un rivestimento marmoreo ai limiti dell’impossibile. Anche in questo caso si è parlato di un eventuale processo alchemico di marmorizzazione, come è avvenuto per il famoso “Cristo Velato” dello scultore Giuseppe Sammartino, l’opera più vista e vistosa della Cappella, salvo appurare poi con le più moderne tecnologie che si tratta di pura e insuperabile abilità scultorea dell’artista.

Tornando alla “Pudicizia”, opera dell’altro scultore Antonio Corradini (che avrebbe dovuto realizzare anche il Cristo Velato, ma morì prima di accingersi all’impresa), vi appare una donna totalmente coperta da un velo di marmo che ne lascia comunque trasparire le forme prosperose: la statua rappresenterebbe a sua volta la “Sapienza Iniziatica” che può essere raggiunta solamente sollevando il “velo” profano che la nasconde.

MESSAGGI EGIZI E ROSA+CROCE

A questa sapienza iniziatica Raimondo di Sangro sarebbe giunto attraverso gli insegnamenti “Rosa+Croce”, movimento al quale lo stesso Di Sangro si era avvicinato passando attraverso lo studio del rito egizio di Misraim, l’alchimia, la cabala e l’ermetismo.

Di tutto questo volle lasciare riflessi misterici nella sua Cappella. Gli influssi egizi vi riverberavano anche per il fatto che essa era stata costruita proprio sul luogo in cui sorgeva anticamente un tempio dedicato alla dea Iside. Influssi che volle far emergere anche in altre citazioni simboliche come il caduceo con il serpente attorcigliato posto nelle mani della statua della “Sincerità”, alludendo alla forza del serpente che secondo la credenza egizia (iscritta sulle pareti del tempio di Horus a Edfu) si attorciglia alla spina dorsale dell’Uomo, attivando tutti i suoi sette centri energetici (corrispondenti ai “Sette Saggi” della tradizione egizia) che potevano propiziare l’Illuminazione e la Vita Eterna.

Sette era appunto il numero sacro dell’Illuminazione finale, corrispondente anche alla sette chiese dell’Apocalisse. Il numero sette rientra anche fra una delle leggende nere che avvolgevano, e avvolgono tuttora Raimondo Di Sangro, principe di Sansevero. Si racconta infatti che fece uccidere sette cardinali e con le loro ossa e la loro pelle realizzò sette sedie.

LE MACCHINE ANATOMICHE

Leggenda macabra che si accosta a quella delle cosiddette “macchine anatomiche”, ovvero i due corpi, di un uomo e di una donna (incinta) custoditi in una cripta sotterranea della Cappella, nei quali è stato perfettamente riprodotto in forma metallizzata l’intricato sistema arterioso e venoso attorno alle ossa e ai principali organi come il cuore (sono visibili perfino i vasi sanguigni della lingua; nel ventre della donna, poi, è visibile la placenta aperta e il cordone ombelicale che si raccorda al feto; il cranio della madre e del bambino si possono aprire per visionarne i vasi sanguigni interni). La sconcertante perfezione di queste riproduzioni fece a lungo pensare che il Principe, con l’assistenza del suo fido medico personale, Giuseppe Salerno, entrambi studiosi di alchimia, avesse ottenuto questo risultato iniettando una particolare sostanza di sua invenzione in corpi vivi. Sarebbe stata questa sostanza, introdotta nelle vene dei due poveracci, a metallizzarne arterie e vene. La principale incongruenza in questa macabra leggenda consisterebbe nel fatto che a quel tempo non era ancora stata inventata una siringa ipodermica in grado di effettuare quell’iniezione (siringa che sarebbe stata perfezionata solo un secolo dopo da un chirurgo di Lione).

Lo stesso Principe pare abbia lasciato una descrizione, apparsa postuma nel 1766, in cui si legge orgogliosamente: “Si veggono due Macchine Anatomiche, o, per meglio dirle, due scheletri d’un Maschio e d’una Femmina, ne’ quali si osservano tutte le vene e tutte le arterie de’ Corpi umani, fatte per injezione, che, per essere tutt’interi, e, per la diligenza, con cui sono stati lavorati, si possono dire singolari in Europa”.

IL CRISTO VELATO

Ma l’effetto simbolico più vibrante di tutta la sua Cappella è certamente quello legato al Cristo Velato (velato da un telo sindonico di marmo) commissionato nel 1753 al giovane scultore Giuseppe Sammartino. Per diverso tempo si pensò che l’eccezionale trasparenza del velo che ricopriva il Cristo fosse stata ottenuta attraverso un processo di marmorizzazione alchemica (sia il committente, il principe Di Sangro, che l’esecutore, il Sammartino, erano infatti dediti a studi alchemici), mentre ormai è certa la natura totalmente scultorea, di eccezionale abilità, dell’opera.

Il legame del Cristo Velato con l’Alchimia resta comunque nel palese richiamo alla Sindone, che gli stessi alchimisti ritenevano fosse il simbolo per eccellenza della Pietra Filosofale, quale “veste del corpo di gloria” del Risorto, chiave dell’Immortalità, della vittoria della Vita sulla Morte. Una ricerca che ossessionava Raimondo Di Sangro.

Lo stesso principe Raimondo probabilmente indulgeva nel lasciar diffondere su di sé l’aura di “stregone”, mago, alchimista, che lo circondava, sottovalutando come i nemici delle sue idee liberali ed illuministiche, soprattutto il clero, avrebbero potuto sfruttare questa “leggenda nera” a suo danno.

Un peccato grave su tutti era per la Chiesa quello di far parte della Massoneria, anzi di esserne il principale esponente, il Gran Maestro, nel Regno di Napoli.

Ma chi era in realtà il principe Raimondo di Sangro?

Per quanto riguarda i suoi natali apparteneva sicuramente alla più alta aristocrazia del regno. Di stirpe Carolingia e della Casata dei Duchi di Borgogna, figlio di Antonio Di Sangro e Cecilia Caetani d’Aragona.

La madre morì quando il principe aveva appena un anno, la sua famiglia era stata mecenate di intellettuali, artisti e filosofi come Vico e Solimena.

Il ramo paterno era invece di tradizione militare. Proprio per meriti “castrensi” il nonno Paolo Di Sangro aveva acquisito per sé ed i propri discendenti il titolo di “Grande di Spagna”. E pare sia stato proprio il nonno ad indirizzare il giovane Raimondo verso gli studi, inviandolo a Roma a istruisi presso i gesuiti.

LA PASSIONE PER I “CASTRATI”

A Roma il giovane Raimondo acquisì fra l’altro un’altra controversa passione: quella per il bel canto… dei castrati. Un gusto canoro molto di moda proprio nello Stato Pontificio, dove alle donne era vietato esibirsi, divieto che non era invece in vigore nel Regno di Napoli. Nonostante questo anche quando il Principe tornò in patria, pare che abbia voluto continuare a coltivare questo suo “hobby”, girando fra i cori parrocchiali in cerca di fanciulli dalla bella voce, che, si dice, “comperasse” poi dalle povere famiglie, per farli castrare (dal suo fido medico Giuseppe Salerno) ed avviarli alla (remunerativa) carriera di “sopranisti”. Non si sa con quanta effettiva gratitudine da parte di questi poveri ragazzi.

In età più matura del Principe c’è anche chi ha attribuito questa sua passione per il canto dei castrati ad un’altra forma di sublimazione iniziatica, legata sempre al mito “rosacrociano” dell’androgino primordiale.

La formazione del Principe, per quanto maturata inizialmente in ambito cattolico, non potè comunque non risentire dello “spirito del tempo”, cioè del vento illuminista che spirava con notevole intensità anche nel golfo napoletano, lo dimostrano i testi contenuti nella sua ricca biblioteca (di oltre 1600 volumi) tra i quali Diderot, Montesquieu, Voltaire, Rosseau…

E fu probabilmente proprio questo vento a portare Raimondo Di Sangro verso la Massoneria, da cui si separò con una clamorosa “abiura” (forse più forzata ed apparente, che reale) nel 1751 quando il Re Carlo VII di Borbone, su forte pressione della Chiesa, mise al bando la Libera Muratoria.

UN’ABIURA DI FACCIATA

L’abiura massonica del principe Di Sangro (ripetiamo: forse più di facciata) fu allora giudicata da molti un vero e proprio tradimento, anche perché lo stesso Raimondo Di Sangro aveva accompagnato la sua “ritrattazione” con informazioni dettagliate circa la composizione dell’organizzazione di cui era diventato Gran Maestro. In pratica aveva consegnato l’elenco degli affiliati. Tutto questo in una lettera, anzi in due lettere, una indirizzata al Re Carlo VII Borbone l’altra al papa Benedetto XIV, al secolo il bolognese Prospero Lambertini, considerato forse con eccessiva indulgenza una sorta di “Papa buono”. Quest’ultimo, nonostante le voci di una sua supposta appartenenza alla massoneria con il grado di Cavaliere Kadosh (voci simili a quelle che due secoli più tardi avrebbero riguardato un altro famoso “papa buono”, Giovanni XXIII), il 28 Maggio 1751 aveva emanato una bolla per ribadire la condanna pontificia della Libera Muratoria del suo predecessore papa Clemente XII.

Questa bolla, più le intuibili pressioni della diplomazia vaticana e del clero locale sulla corte napoletana, indussero re Carlo VII di Borbone ad emettere, nello stesso anno (10 Luglio 1751) un editto in cui metteva al bando le logge ed i massoni in tutto il Regno di Napoli.

Frequentando la corte ed avendo un ottimo rapporto con il Re, lo stesso principe De Sangro aveva probabilmente avuto sentore da tempo delle nuvole che si addensavano sulla Libera Muratoria, ed aveva certamente elaborato una strategia per minimizzare il danno sia per sé stesso che per la maggior parte dei suoi fratelli.

L’ipotesi più “giustificazionista” sul comportamento e sull’abiura del Principe, sarebbe infatti quella di una deliberata linea di lealismo politico-religioso con la quale si accettava di fatto la proibizione del Re sciogliendo l’Ordine Massonico, e nello stesso tempo si proclamava l’estraneità della massoneria napoletana a qualsiasi azione tesa a sovvertire la monarchia e l’ordine pubblico, descrivendone appunto la composizione (che comprendeva alcuni dei nobili più in vista di Napoli) e l’attività culturale (negando in essa pratiche contrarie alla religione). Tutto questo per sventare più gravi e più dolorose conseguenze giudiziarie per tutti i massoni napoletani.

Di fatto, comunque, il principe Di Sangro consegnò all’Autorità il piedilista delle logge napoletane, e ci si può immaginare lo scompiglio che si creò in seguito a questa divulgazione (sempre che non fosse stata preliminarmente annunciata e concordata con gli stessi “fratelli”, almeno quelli più in vista. E’ solo un’ipotesi, nulla, nessun documento prova questa eventualità).

L’AMICIZIA DEL RE

Va considerato in questo contesto anche l’ottimo rapporto personale del Principe Raimondo Di Sangro con il sovrano Carlo VII Borbone. Il Principe era stato uno dei primi blasonati napoletani ad essere insignito dell’Ordine di San Gennaro, istituito dal Re e destinato ad accogliere una cerchia ristrettissima di nobili, non più di sessanta, scelti singolarmente dallo stesso monarca.

Carlo VII Borbone

Per ringraziare Carlo VII di tale onore, lo stesso Principe Di Sangro, conoscendo la sua passione per la caccia, volle fargli omaggio di un mantello impermeabile, realizzato con un tessuto di sua invenzione, mai utilizzato prima di allora, che fu molto apprezzato dal Re. Una stima che crebbe anche per altre vicende militari, come la presa al suo comando della città di Velletri, e altre invenzioni “belliche” come un innovativo cannone trasportabile (in ferro anziché bronzo) ed un fucile a retrocarica (che precorse l’analoga invenzione francese del 1812).

In ogni caso, grazie alla sua autodenuncia “minimizzante” (o al suo tradimento, secondo altri) le conseguenze per Raimondo Di Sangro e per quasi tutti i suoi fratelli (tranne tre, a quanto si sa) furono di minima entità. Si tradussero in semplici ammende ed una solenne ammonizione. Unici condannati furono il Larnage (in contumacia), il frate francescano Bonaventura ed il barone Tschudy, che ebbe comunque il tempo di fuggire.

Non mancarono comunque a suo tempo aperte accuse di “tradimento” rivolte al Principe Di Sangro, ritenendo che avesse fornito al Re i nomi dei suoi confratelli solo per aver salva la vita e le proprietà, e per questo il suo nome venne esecrato in molte logge europee che arrivarono perfino a bruciarne pubblicamente l’immagine. C’è da dire che se fosse stato veramente così, probabilmente ci sarebbero state forme di vendetta ben più concrete ai danni del Principe, che invece condusse senza problemi, pur in modo più riservato, il resto della sua vita.

LA CARRIERA MASSONICA

Come ci sono tesi controverse sul suo abbandono della Massoneria, ce ne sono altrettante sui tempi e la data della sua effettiva iniziazione. A dir il vero lo stesso Raimondo Di Sangro fornisce una data apparentemente precisa (il 22 Luglio 1750), ma lo fa nella autodenuncia con la quale, dopo il bando della Massoneria nel Regno di Napoli, nel 1751, intendeva probabilmente minimizzare presso il Re ed il Papa Benedetto XIV la portata dell’attività massonica napoletana, e la sua in particolare, affermando di esservi stato presentato da un Cavaliere assai vicino al Re e di avervi trovato “onestissima gente”, e di non essersi imbattuto “in alcuna cosa viziosa, se non in molte piuttosto ridicole e insulse, cioè in certi enigmi sotto i quali ciascuna bagatella alla società apparentemente si nasconde”. Ammise di essere comunque rimasto fra le colonne massoniche, fino a divenirne Gran Maestro, perché gli sembrava lodevole, per il bene stesso del Regno, che uomini di diverso ceto potessero conversare fra di loro “posta da banda la nobiltà della nascita e la gravità degli impieghi”.

Iniziato nel 1750, divenuto Gran Maestro nel 1751, in appena un anno??? Quasi impossibile!

Più probabilmente la carriera massonica di Raimondo Di Sangro era iniziata diversi anni prima in una pre-esistente realtà muratoria napoletana. Ed è proprio questa incongruenza che fa pensare ad un deliberato depistaggio del Principe, che avrebbe rivelato all’Autorità solo una parte, quella per allora più recente e manifesta, delle vicende massoniche e dei loro protagonisti.

Secondo un’ipotesi, avvallata anche da studi di Giordano Gamberini, in realtà il Principe potrebbe essere stato iniziato nella preesistente loggia del Duca di Villeroy già nel 1736-1737, per trovarsi poi a capo della massoneria napoletana una decina di anni dopo, una tempistica decisamente più credibile di quella “confessata” nella sua autodenuncia (un solo anno fra la sua iniziazione e la nomina a Gran Maestro di tutta la Libera Muratoria napoletana).

Stando così le cose Raimondo Di Sangro avrebbe quindi compiuto il suo intero corsus honorum all’interno della massoneria ben prima della data, 22 Luglio 1750, in cui lui stesso aveva dichiarato al Re ed al Papa di essere stato iniziato. Vi sarebbero anche diverse tracce di suoi autorevoli interventi in antecedenti cerimonie massoniche. Tutto questo, quindi, rafforzerebbe la tesi di un deliberato depistaggio per attenuare la sua posizione ma anche quella di tutti i suoi fratelli.

Sembra altrettanto certo che la Massoneria avesse messo radici nel Regno di Napoli già da tempo, ben prima che maturasse la vocazione iniziatica dello stesso Raimondo Di Sangro.

In realtà si pensa infatti che una loggia massonica, riconosciuta dalla Gran Loggia Madre d’Inghilterra, fosse operativa in Napoli fin dal 1728; e che in ogni caso esistesse nel Regno di Napoli una ben più antica catena di gruppi esoterici di tradizione italica-egizia-caldea, come il Rito di Misraim, l’Alta Massoneria, l’Ordine della Stella Fiammeggiante, avvolti allora come ancora oggi da una fitta cortina di nebbie della Storia, che pochi sono riusciti a penetrare.

LA MASSONERIA NAPOLETANA

Quanto all’effettiva costituzione in Napoli già nel 1728 di una loggia massonica, la prima o una delle primissime in Italia, con patente di regolarità rilasciata dalla stessa Gran Loggia Madre di Londra, non mancano documenti e testimonianze, in base alle quali a farsi latore della stessa patente londinese sarebbe stato quello che è tuttora considerato il “primo iniziato” italiano, il musicista lucchese Francesco Xaverio Geminiani, trasferitosi in Inghilterra e colà divenuto massone già nel 1725 nella loggia “The Apple Three”. A lui, ed al confratello Giorgio Olivares, il Gran Maestro Lord Coleraine affidò la missione di tornare in Italia, a Napoli, e di fondarvi una loggia che assunse, pare, la denominazione “La Perfetta Unione”, la stessa dell’Officina in cui diversi anni dopo sarebbe stato iniziato il Principe Raimondo Di Sangro, anche se non si sa se ci sia stata un’effettiva continuità nell’attività di questa Loggia, o se vi sia stata una fase di transizione culminata in una rifondazione databile fra il 1745 ed il 1749, quando la loggia divenne “giusta”, cioè numericamente adeguata, ammettendo cinque ufficiali borbonici e altri 10 fratelli fra cui il sacerdote Filippo Paltoni e Francesco Zelaia (che in seguito promosse una svolta più aperta verso borghesia della stessa massoneria napoletana).

Nel 1731 c’era già stato un ulteriore impulso massonico da parte di un gruppo di militare austriaco. Pare infatti che i fautori dell’avvento della massoneria nel Regno di Napoli siano stati in quei primi anni essenzialmente personaggi stranieri, almeno finché attorno al 1745, come riporta un manoscritto di Emanuele Palermo, “un Piemontese ed un Francese (il Larnage), ambi di domicilio in Napoli, il primo di mestiere acquivitaro e ‘l secondo negoziante di drappi e seta, pensarono di erigere una loggia separata e farsene essi i Capi e Direttori, non per aver l’onore di esserne chiamati i Fondatori della Loggia di Napoli, ma quanto per averne il profitto”.

Va inoltre ricordato che già nel 1740 circolava in Napoli una traduzione manoscritta del celebre Discorso di Ramsay, in cui si proclamava il legame fra la stessa massoneria e la tradizione misterica dei cavalieri Templari, una tesi destinata a fare grande presa soprattutto fra la nobiltà, e che quindi è lecito supporre che a Napoli, in quel periodo esistesse già una loggia “aristocratica” orientata verso lo scozzesismo ed il templarismo. E che un personaggio come Raimondo Di Sangro possa avere avuto un ruolo importante in questo senso.

In ogni caso, come si è detto, nel 1751, nel momento più critico della massoneria napoletana messa al bando in tutto il Regno di Napoli, l’azione “deviatrice” di Raimondo Di Sangro sembra avere avuto pieno successo… se la sua vera intenzione era stata appunto quella di salvaguardare il più possibile i suoi confratelli in una situazione politica ormai pregiudicata che avrebbe potuto avere conseguenze ben più drammatiche.

Ciò non evitò comunque che alcuni abbiano continuato a considerare quello del principe un “atto di viltà” ed un sostanziale “tradimento” (l’aver fornito all’autorità l’elenco dei fratelli). Un risentimento massonico, che si aggiunse alla mai sopita diffidenza della nobiltà più conservatrice e soprattutto del clero, spingendo il principe Di Sangro ad isolarsi sempre di più nei suoi laboratori annessi al Palazzo ed alla Cappella di famiglia, per immergersi nei suoi studi e nei suoi esperimenti.

L’INQUISIZIONE

Fu comunque costretto a chiudere anche la sua tipografia, e pur avendo evitato la reclusione a Castel Sant’Angelo richiesta invano dall’Inquisizione, dovette comunque guardarsi a lungo dalla stretta sorveglianza clericale, soprattutto da parte di due accaniti inquisitori gesuiti, Innocenzo Molinari e Francesco Pepe, che spargevano veleni fra il popolo su di lui, e nei loro rapporti al Vaticano si scagliarono più volte contro le sue opere “pericolosamente scientifiche”. La Scienza, per la Religione, non cessava infatti di rappresentare un’insidia ai suoi dogmi, specialmente nel Secolo dei Lumi.

Emblematica sotto questo aspetto la vicenda della cosiddetta “Lettera Apologetica del Quipu”, che Raimondo Di Sangro pubblicò nella sua tipografia, prima di essere costretto a smantellarla, fra il 1750 ed il 1751, con una rivoluzionaria tecnica di quadricromia, inedita al suo tempo, sotto lo pseudonimo “Esercitato”, pseudonimo che però non bastò a deviare gli strali del clero contro di lui, obbligandolo in seguito a chiudere la sua avanzata officina tipografica (o meglio a farne dono – gradito – di tutte le sue attrezzature al Re che con esse diede vita alla Stamperia Regia)

Nella “Lettera Apologetica” Raimondo Di Sangro aveva colto l’occasione per presentare le sue invenzioni ed i suoi orientamenti culturali, includendovi studi cabalistici, magici e ermetici che l’avevano portato ad interpretare e tradurre la scrittura delle antiche popolazioni peruviane, basata sull’intreccio di nodi variamente colorati, detti appunto Quipu. Era giunto a questa “decifrazione” partendo da una profonda conoscenza della cultura e della mistica degli Egizi, della loro astrologia, delle opere di Ermete Trismegisto, nonché dell’origine del geroglifico, quindi della nascita dell’intelligenza umana, che per evitare (invano) la censura clericale fu costretto ad inquadrare in una visione biblica, attribuendola ad Adamo e alla nazione ebraica, che l’avrebbe poi a sua volta trasmessa all’Egitto ad opera di Misraim, nipote di Cham.

Però gli ambienti clericali, ed in particolare i due gesuiti Molinari e Pepe preposti alla “sorveglianza” del principe Di Sangro, ravvisarono nell’apparenza scientifica della “Lettera Apologetica” significati nascosti e proibiti di natura misterica (con accuse di panteismo e di “libero pensatore”, accuse che lo accomunarono al povero Giordano Bruno, bruciato dall’inquisizione nel secolo precedente; ma Raimondo Di Sangro seppe cavarsela molto meglio).

LE PROVOCAZIONI DEL PRINCIPE

Ci furono poi altre “provocazioni” dello stesso Principe (come la riproduzione in laboratorio del cosiddetto Miracolo di San Gennaro) che scatenarono una nuova campagna denigratoria nei suoi confronti e nei confronti della massoneria, additandolo come “rinnegatore della Sacra Scrittura e del Miracolo di San Gennaro”. Fra l’altro proprio quell’anno, 1751, il miracolo non si era verificato ed il clero ebbe buon gioco ad aizzare il malumore popolare contro i massoni e lo stesso Raimondo Di Sangro (il quale invece il “miracolo” della liquefazione del sangue del Santo l’aveva ottenuto chimicamente, realizzando un sorta di ostensorio del tutto simile a quello usato dalla Chiesa, e provocando, tramite un’ampolla di mercurio nascosta in esso, la liquefazione di una sostanza simile al sangue).

Era troppo, anche per un nobile del suo lignaggio. Le conseguenze non mancarono. “La Lettera Apologetica” finì fra i libri proibiti, e nello stesso momento Raimondo Di Sangro dovette abbandonare la sua attività di innovativo stampatore e, come si è detto, “chiudere” pure l’intera massoneria napoletana di cui era divenuto Gran Maestro (siamo sempre nel fatidico 1751). Dovette anche confessarsi ed inviare una supplica di perdono al Papa.

In effetti, dal punto di vista del potere conservatore – della Corte napoletana e della Chiesa – non erano certamente del tutto infondati i timori verso gli ambienti intellettuali che raccoglievano gli stimoli illuministici provenienti soprattutto dalla Francia pre-rivoluzionaria, ed in particolare nei confronti della Massoneria.

Proprio in quegli anni stavano infatti maturando i semi dei grandi rivolgimenti politici e sociali contro i poteri e le monarchie assolutistiche (la Rivoluzione Francese del 1789, la rivolta e la proclamazione della Repubblica Partenopea nel 1799), che nelle logge massoniche avevano trovato un terreno particolarmente fertile, nonostante le dissimulazioni difensive del Principe nei confronti del Re e del Papa.

Per tutto il Settecento Napoli rappresentò infatti uno dei centri più importanti, anche a livello europeo, nell’affermazione della Massoneria e dello spirito illuminista. Lo testimoniarono i moti che nel 1799 portarono alla proclamazione della Repubblica Partenopea. E nello sviluppo della Libera Muratoria il Principe Raimondo Di Sangro ebbe certamente nel suo tempo un ruolo fondamentale, prima e dopo (tramite il figlio Vincenzo) la sua già ricordata abiura e la sua forzata “autodenuncia” del 1751.

IL FIGLIO VINCENZO

Il fatto stesso che il figlio Vincenzo fosse stato accolto in massoneria sembra testimoniare la sostanziale continuità del credito massonico goduto dalla famiglia Di Sangro, rafforzando la tesi di un “tradimento” sostanzialmente pilotato da parte del Principe Raimondo. Nella realtà fu anzi proprio il figlio Vincenzo ad essere tradito da una spia locale.

Vincenzo Di Sangro

La ferita inferta al corpo massonico dall’ostracismo del Re fu certamente grave, ma non mortale, come il Principe Di Sangro aveva probabilmente previsto con la sua strategica “delazione”; qualche brace massonica sotto la cenere del forzato assonnamento delle logge deve certamente essere rimasta accesa, se già nel 1763 e nel 1768 vennero concesse due patenti internazionali per ricostituire in Napoli due logge: la prima (denominata “Les Zeles”) con l’avvallo della Gran Loggia Nazionale d’Olanda, la seconda (che riprese il nome della “Perfetta Unione”) con quello della Gran Loggia Madre d’Inghilterra.

Un’ulteriore prova della “sopravvivenza” della massoneria napoletana anche dopo il divieto proclamato dal Re nel 1751, è affiorata anche dal ritrovamento, ad Ischia, di un testo che sotto un forviante frontespizio intitolato al “De Rerum Natura” nasconde in realtà importanti documenti massonici, che allora era assai pericoloso conservare, quali una dichiarazione dal carcere di un massone sulle vicende successive all’editto del Re, una lettera del Principe di Sansevero e la risposta del Papa Benedetto XIV, preziose copie di rituali dell’epoca, e l’illustrazione di un Quadro di Loggia. Secondo la studiosa, Lucia Annicelli, che ha scoperto questi documenti, appare chiaro che la loro pericolosa conservazione aveva lo scopo di preservarli per non disperderne la memoria, ed eventualmente poterli nuovamente utilizzare.

I massoni napoletani, insomma, non demordono, ed anche le autorità ed il clero ne avvertono il rifiorire. E’ in quegli anni che s’intensificano i contatti, probabilmente già avviati dallo stesso Principe Di Sangro e mantenuti in seguito dai fratelli Luigi e Francesco D’Aquino, con il famoso e discusso Giuseppe Balsamo, passato alla storia come Conte di Cagliostro, altro personaggio ritenuto particolarmente pericoloso soprattutto dalla Chiesa (che lo processò e lo “seppellì” vivo in una cella della fortezza di San Leo fino alla fine precoce dei suoi giorni).

LA TRAPPOLA DI CAPODIMONTE

Fu a questo punto che il ministro Tanucci, per conto del Re, nel Marzo del 1776 decise di mettere letteralmente “in scena” un’azione repressiva ed al tempo stesso dimostrativa contro la massoneria, affidandone l’esecuzione al capo della polizia, Gennaro Pallante, individuo di pochi scrupoli, che mise a punto una trappola, diventata famosa come la “Sorpresa di Capodimonte”, azione che però si risolse in modo molto differente da quanto immaginavano i suoi ideatori.

Il Pallante, servendosi di un infiltrato (pagato duecento ducati), invitò un certo numero di massoni, accuratamente scelti fra i ranghi più bassi per non creare imbarazzi fra i massoni appartenenti alla nobiltà più vicina alla Corte, a partecipare ad una falsa tornata per l’iniziazione di nuovi fratelli in un palazzo di Capodimonte, tornata che si trasformò in un’ampia retata con decine di arresti ed imputazioni che prevedevano anche la pena di morte.

A questo punto però si sollevarono indignate ed impreviste proteste per la viltà dello stratagemma poliziesco, sia da parte dei più altolocati notabili della massoneria napoletana, ma soprattutto da parte dei maggiori centri massonici europei, ed anche da parte della stessa moglie del Re, Maria Carolina, e di altre importanti diplomazie. Alla fine la “Sorpresa di Capodimonte” si trasformò quindi in un increscioso scandalo internazionale ed il Re di Napoli dovette recedere dai suoi intenti punitivi, sostituendo lo stesso ministro Tanucci con il marchese di Sambuca decisamente più favorevole alla causa massonica. Tutti gli arrestati vennero quindi scarcerati. Ed a finire sotto inchiesta fu questa volta il famigerato capo della polizia Pallante.

Quale era in quell’epoca il substrato massonico di Napoli? Quale era il patrimonio sapienziale del principe Raimondo Di Sangro?

ANTICHI MISTERI

Il Principe era certamente consapevole dell’eredità sapienziale proveniente dalle antiche scuole misteriche egizia e pitagorica, i cui insegnamenti avevano pervaso per secoli le elites italiche (già nell’antica Roma che vide fra i suoi primi re un probabile iniziato, Numa Pompilio). Un legame iniziatico fra Scuola Italica (Pitagora) e l’Egitto, rinverdito dalla riscoperta rinascimentale dell’Ermetismo, che pervade tuttora una parte rilevante del cosiddetto “segreto massonico”, e che il Principe di Sansevero esplorò in profondità con tenacia, acume, e partecipazione spirituale.

Nato sotto il segno dell’Acquario era astrologicamente proiettato verso una Nuova Era di progresso, che volle interpretare con una forte dedizione ideale, dedizione che si alimentò soprattutto degli ideali massonici, nelle varie articolazioni attraversate dal suo tumultuoso cammino iniziatico.

CON IL CONTE DI CAGLIOSTRO

Fu Rosa+Croce, fautore dello scozzesismo, e più ancora cultore della ritualità egizia. Probabilmente fu proprio lui ad iniziare o quanto meno ad avviare sul percorso dell’esoterismo egizio lo stesso Conte di Cagliostro, tuttora riconosciuto come colui che introdusse e codifico il rito di Misraim in Italia.

Cagliostro

Per il momento solo un’ipotesi, che potrebbe però divenire una conclamata realtà storica se la Reverenda Camera Apostolica del Vaticano decidesse di de-secretare gli atti ufficiali del processo a Cagliostro, del 1790, processo conclusosi con la condanna del povero Conte all’internamento a vita in una torbida cella della Rocca di San Leo in Romagna. Di quel processo venne reso pubblico solo un compendio affine alle tesi dell’Inquisizione. I verbali più minuti delle varie deposizioni rimasero e sono tuttora segreti. In essi pare siano riportate affermazioni dello stesso Cagliostro che avrebbe ammesso di aver appreso tutte le sue conoscenze alchemiche proprio a Napoli “da un principe molto amante della chimica”. Forse venne anche pronunciato il nome di quel principe, forse si trattava proprio di Raimondo di Sangro, ma i giudici dell’Inquisizione non vollero creare ulteriore scandalo, e preferirono ignorare questa particolare ammissione di Cagliostro (o magari riservarsi di utilizzarla in futuro), e così le sue reali parole restano per ora semplici indiscrezioni, sepolte negli archivi segreti del Vaticano. Fino a quando?

LA MORTE E LA LEGGENDA NERA

Messo all’indice dalla «fratellanza» internazionale e dagli stessi amici di un tempo, il Principe tornò a occuparsi per altri vent’anni della sua alchimia fino a quando la sera del 22 marzo 1771 la morte lo colse «per malore cagionatogli dai suoi meccanici esperimenti» . Probabilmente aveva inalato o ingerito qualche sostanza tossica durante le sue lunghe notti nel laboratorio.

IL CORDOGLIO DI MOZART

Quando Mozart, che l’anno precedente aveva incontrato e stretto amicizia con lo stesso Raimondo di Sangro, apprende della sua morte ne resta colpito. Gli dedica una Sonata in memoriam. E forse lo eterna come Tamino nel Flauto Magico.

È ancora Croce a riportarlo: “Quando sentì non lontana la morte, provvide a risorgere, e da uno schiavo moro si lasciò tagliare a pezzi e ben adattare in una cassa, donde sarebbe balzato fuori vivo e sano a tempo prefisso; senonché la famiglia […] cercò la cassa, la scoperchiò prima del tempo, mentre i pezzi del corpo erano ancora in processo di saldatura, e il principe, come risvegliato nel sonno, fece per sollevarsi, ma ricadde subito, gettando un urlo di dannato.

A:. Mu:.

23 Gennaio 2022 e.v.


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