LA MORTE DELLA MORTE

inserito il 19 04 2021, nella categoria Filosofia, Giordano Bruno, Tanatologia, Tavole dei Fratelli

La tomba di Hiram

Diceva Epicuro nella sua “Lettera sulla felicità” : “il più terribile dei mali, la morte, per noi è nulla, perché quando ci siamo noi non c’è e quando c’è, non ci siamo noi. Dunque, non è nulla né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è e i morti non sono più”.

Giordano Bruno è stato un forte sostenitore della teoria degli opposti e quali sono in assoluto gli opposti che si presentano all’essere umano? La vita e la morte.

Della vita in linea di massima conosciamo tutto poiché la si vive, ma della morte oltre all’angoscia che provoca ed ai suoi effetti, cosa sappiamo? Di sicuro che è la totale assenza del sentire.

Quando Atropo decide di tagliare il filo la morte si presenta: è la fine naturale del nostro essere, il non esistere più, un sonno assoluto, infinito e senza sogni dal quale non ci si risveglierà.

Un’esperienza simile la può avere un individuo sottoposto ad anestesia totale; ebbene al momento del risveglio, si renderà conto che durante tutto il periodo passato sotto anestesia il proprio stato era uno stato di non esistenza, il sonno era assoluto e se anche per complicanze, fosse sopraggiunta la morte, per lui nulla sarebbe cambiato; quel suo sonno, semplicemente, da chimico sarebbe diventato naturale per l’eternità e soprattutto senza averne alcuna coscienza.

Da sempre è stato difficile ritenere la morte come una entità, un fenomeno della volontà universale della natura, ma si è considerata la sua idea come un qualche cosa di cui aver paura e da esorcizzare, rappresentando un mistero difficile da accettare con razionalità e realismo, e neppure la filosofia, nella sua secolare e costante indagine sulla natura e vita dell’uomo, è riuscita a dare all’umanità chiarezza e certezze su questo fenomeno, lasciando insoluti gli interrogativi ad esso inerenti.

Si pensa, si apprezza e si gioisce di tutto quello che si possiede in termine di beni materiali, affettivi, spirituali, poi all’improvviso sopraggiunge la morte raffigurando senza alcun equivoco l’inevitabile destino dell’uomo e rappresentando la certa e comune conclusione della vita.

Senz’altro il desiderio dell’uomo sarebbe quello che gli fosse ancora concesso di esistere, in questa non esistenza, in altri termini continuare, pur ignorando come, ad esistere dopo la morte.

In effetti è difficile accettare che con la nostra morte finisca tutto, ci pare un non senso che l’aver speso tutta la vita a costruire un qualcosa, talvolta ad accumulare, ad intrecciare rapporti, a voler bene, ad amare qualcuno, non debba avere un seguito. Purtroppo un sogno, solamente un sogno, un profondo desiderio interiore, ma si deve razionalmente considerare che se anche gli spiriti dei defunti si dovessero incontrare nell’aldilà, in assenza dei sensi da cui scaturiscono le emozioni umane, non sarebbero probabilmente più in grado di riconoscersi e quindi ricreare legami spirituali, assimilabili a quelli vissuti durante la vita terrena, in poche parole, in assenza di emozioni, non ci sarebbero neppure ricordi.

Come dal nulla passiamo alla vita, così alla morte, dalla vita ritorniamo al nulla in un annullamento totale simile a quello prima della nostra nascita. “Sarà di noi dopo la nostra morte lo stesso che già è stato prima della nostra nascita”. Così si esprimeva Feuerbach nei suoi “Pensieri sulla morte e l’immortalità”.

Ludwig Feuerbach

Post mortem nihil est, ipsaque mors nihil: velocis spatii meta novissima (dopo la morte non esiste nulla, la morte stessa è il niente: l’ultima meta di una corsa rapida); questa la frase con cui il filosofo romano Seneca, nel secondo coro delle Troiane, esprimeva il proprio concetto sull’argomento.

Giordano Bruno

Molto interessante è la precisa e puntuale descrizione della morte che Giordano Bruno, fa nell’Epistola Esplicatoria nello Spaccio della Bestia Trionfante:

Giove………..Sa che la composizione dell’eterna sostanza corporea (che non è annullabile né annichilibile, ma rarefattibile, ingrossabile, formabile, ordinabile, figurabile) si dissolve, si cambia la complessione, si muta la figura, si altera l’essere, si varia la fortuna: rimanendo nella sostanza ciò di cui gli elementi sono sempre composti; ciò che, conservando il principio della materia, fu sempre vera sostanza delle cose, eterna, ingenerabile, incorruttibile. Sa bene che dell’eterna sostanza incorporea nulla si cambia, si forma o deforma, ma rimane la stessa, che non può essere soggetta a dissoluzione, come non è possibile sia soggetta a composizione: e perciò né di suo né in alcun caso può essere detta morire, poiché morte non è altro che divorzio di parti congiunte nel composto, dove rimanendo integro l’essere sostanziale di ciascuna (che non può perdersi), cessa quella casualità di amicizia, di accordo, di complessione, unione e ordine. Sa che la sostanza spirituale, benché abbia familiarità con i corpi, non viene propriamente in composizione e in mescolanza con essi, poiché questo conviene a corpo con corpo, a parte di materia costituita in un modo con parte di materia costituita in un altro; ma è un principio efficiente, che dona forma da dentro; dal quale, grazie al quale e secondo il quale si attua la composizione: ed è appunto come il nocchiere sulla nave, il padre di famiglia in casa, un artefice che fabbrica, contempla e conserva l’edificio dall’interno;”

Si potrebbe affermare con gli stessi termini, più semplici e moderni, che la morte è la definitiva e permanente cessazione di tutte le funzioni biologiche che permettono la vita ad un organismo; ma essa, dovrà essere considerata definitiva solo in relazione alla definizione di vita: la vita implica la morte.

Proprio perché vive, qualsiasi organismo, prima o poi muore.

In realtà quando si parla di morte, si dovrebbe parlare più precisamente di trasformazione, la morte come condizione assoluta non esiste, poiché nell’universo nulla si distrugge, ma tutto si trasforma e quando viene detto che qualche cosa muore, si dovrà intendere che essa passa da uno stato, da una condizione, ad uno stato o condizione diversi, nel senso che, prima o poi, la materia e l’energia spirituale che compongono l’essere umano torneranno a riunirsi probabilmente in forme più complesse di quelle attuali, come appunto risulta osservando la continua trasformazione dell’universo.

La morte, quindi, è da considerare perdita personale non già perdita assoluta, ma solo nuova condizione di vita.

Ne consegue che tutto ciò che è, è da considerarsi eterno e trasformabile, cioè tutto è sostanza universale infinita, “Sostanza o Dio-Natura: infinita potenza di pensare (cogitazio) ed infinita potenza corporea (extensio)” (Spinoza), sostanza, quindi, composta di materia e spirito, spirito naturalmente da ritenere come l’ordine logico della realtà e l’insieme di tutte le leggi che governano l’Universo e non come emanazione di un Dio antropomorfo, astratto e personificato ad un tempo.

Pertanto l’eternità dello spirito non consisterà nella sua sopravvivenza come entità individuale, poiché tale entità è indissolubilmente legata alla esistenza e durata temporale del corpo, ma confluirà, quale essenza, unitamente alla materia, in questa sostanza universale infinita.

Certamente quest’idea di spirito parte integrante dell’essere umano, assieme all’idea di una vita dopo la morte, ha fatto sì che l’uomo si sia trovato di fronte al più grande interrogativo della propria storia condizionando, altresì, non poco, la vita dell’umanità intera.

Ma se indaghiamo ontologicamente la morte, vedremo che pur avendo effetti esiziali per l’individuo, concretamente non è che una realtà sensibile presente solo nella nostra fantasia, poiché essa non esiste più, nell’istante in cui si realizza, ossia il suo iniziare ad esistere è ad un tempo anche il suo non più esistere.

Solo se nel manifestarsi lasciasse un qualcosa potrebbe diventare una realtà tangibile che sarebbe, a questo punto, la sola condizione per la quale potrebbe esistere. Della morte si possono vedere gli effetti, ma essa stessa è vittima di questi effetti: un’esistenza viene integralmente annichilita, ma con la totale distruzione di questa esistenza, essa stessa verrà annientata

Ed ancora, Feuerbach sosteneva: “La morte non è un annientamento positivo, bensì un annientamento che annienta sé stesso, un annientamento che di per sé stesso è niente, nulla. La morte è di per sé stessa la morte della morte; col finire della vita finisce ella stessa, muore per la sua propria mancanza di senso e contenuto. Ciò che nega l’esistenza stessa non ha di per sè stesso esistenza. Solo per gli altri l’individuo cessa di essere, non per sé stesso; la morte è morte solo per coloro che vivono, non per coloro che muoiono”.

Malattia, dolore, sofferenze sono fatti ed emozioni della vita non della morte; la morte non è un evento della vita, non si vive la morte scriveva Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus.

Purtroppo si è portati a paragonare un individuo morto con ciò che era quando ancora in vita, e per questa consuetudine, la morte ci appare come una cosa reale che viene dipinta come terribile ed atroce, ma è chiaro che questa realtà immaginaria non derivi altro che dalle nostre idee, dal nostro concetto di fine che coinvolge naturalmente esclusivamente i vivi, ma che chiaramente non comporterà alcunchè nella realtà post mortem di un individuo poiché la morte è morte solo per coloro che vivono, non per coloro che muoiono.

Pertanto è assurdo sostenere di aver paura della morte, poiché il suo continuo pensarci sarà foriero solo di dolore, sofferenza e costante afflizione, anche se, finché queste emozioni dureranno nel tempo, significherà essere ancora in vita, cioè non essere ancora privati della propria esistenza.

Ma cosa rimane dell’uomo in questo post mortem? Certamente non una illusoria seconda esistenza, una immortalità individuale quasi a compensazione della morte stessa come vorrebbero farci credere alcuni insegnamenti religiosi che con un inganno finalizzato ad occultare la realtà, cercano di farci credere dell’esistenza di una realtà diversa da quella che esiste.

Ciò che rimane dell’uomo sarà solo la sua immagine, il suo ricordo di quando era ancora in vita e soprattutto di ciò che è riuscito a fare ed a realizzare quando era ancora in vita. La memoria di un individuo non sparisce con la sua vita terrena, ma sopravvive soprattutto negli amici, nei parenti e nelle persone più care.

A tale proposito possiamo leggere ciò che scrive Ovidio alla fine del libro quindicesimo delle Metamorfosi: Quando vorrà, venga pure quel giorno, che solo sul corpo ha potere, e ponga fine al corso della mia vita incerta: con la parte migliore di me stesso volerò in eterno ben oltre gli astri e il nome mio indelebile rimarrà. E ovunque su terre assoggettate si estende il potere di Roma, la gente mi leggerà e, se qualche verità è nel presentimento dei poeti, di secolo in secolo per la mia fama vivrò”.

Ho detto

E:. B:.

14 Aprile 2021 e.v.

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