IMPARARE PER INSEGNARE

Insegnare vuol dire “imprimere un segno simbolico” nella mente e nel cuore dell’allievo per aprire la via che porta alla conoscenza. L’insegnante spezza la tessera della conoscenza, indicando la strada, ma lasciando che sia l’allievo a percorrerla. L'esperienza personale di un docente prima e dopo l'Iniziazione, nel rapporto con gli studenti.

inserito il 19 02 2013, nella categoria Iniziazione, Maestro Massone, Simbolismo, Tavole dei Fratelli

Tavola del fr:. E:. G:. D:.

Carissimi Fratelli,

questa tavola nasce dall’invito, rivoltoci tempo fa dal nostro M:.V:., di preparare delle tavole personali. E così, non senza imbarazzo, ho deciso di mettere a nudo la mia anima davanti a Voi, per raccontarVi come l’ingresso nella Massoneria ha cambiato il “mio essere insegnante” e, attraverso ciò, la mia vita: con umiltà desidero raccontarVi il mio personalissimo viaggio interiore dopo la luce.

INSEGNARE

1.1) Che cosa vuol dire insegnare?

In principio, sarebbe bene chiedersi che cosa vuol dire insegnare.

Risalendo all’etimologia della parola “insegnare”, ci colpisce scoprire che ancora una volta gli antichi latini riempivano le parole di significati che vanno al di là della semplice apparenza: la parola latina “insignàre” è composta  da in (intensivo) e da”signàre” nel senso di “segnare, imprimere”; dunque, insegnare sta per “imprimere un segno”.

E ciò dovrebbe fare un insegnante, lasciare un segno nella mente e nel cuore di ogni suo allievo.

Ma attenzione a credere, come avveniva un tempo, che l’allievo fosse tabula rasa su cui l’insegnante potesse incidere la conoscenza.

E guai a quell’insegnante che volesse lasciare il segno del proprio ego, cercando di plasmare menti e cuori degli allievi.

Mi rifiuto di pensare che l’allievo subisca passivamente il travaso di una conoscenza precofenzionata da parte di un insegnante che voglia soltanto replicare ed espandere se stesso.

Allora che cosa vuol dire imprimere un segno?

Se intendiamo segno nel significato estensivo di simbolo, l’insegnamento viene allora inteso come creazione, attraverso il “segno simbolico”, di situazioni che consentano all’alunno di scoprire, inventare, costruire i concetti, secondo la concezione dell’insegnamento di Tommaso D’Aquino: <<vi è un doppio modo di acquistare la scienza: uno quando la ragione naturale da se stessa giunge alla conoscenza di cose ignote e questo modo si chiama invenzione; l’altro quando la ragione naturale viene aiutata da qualcuno dall’esterno e questa maniera si chiama insegnamento. […] Il docente cioè conduce altri alla scienza di cose ignote allo stesso modo che uno, scoprendo, conduce se stesso alla conoscenza di ciò che ignora>>.

L’insegnante, pertanto, non è colui che imprime le conoscenze nella mente passiva dell’alunno, ma è colui che crea le migliori condizioni affinchè l’allievo apprenda.

Un’antica massima recitava: se vuoi aiutare chi ha fame non dargli cibo ma insegnagli a procurarsi il cibo. Infatti, chi dà il cibo invece di insegnare a procurarselo, sfama ma allo stesso tempo affama, perché è da lui che si deve tornare per mangiare.

L’insegnante è colui che crea le migliori condizioni affinchè l’allievo apprenda, imprimendo nel suo cuore e nella sua mente dei segni simbolici che quest’ultimo comprenderà pienamente solo al momento giusto, alla luce di eventi successivi, come delle uova che aspettino il momento giusto per schiudersi rivelando la vita che portano in se.

Nell’antica Grecia la parola σύμβολον significava segno, e derivava dal verbo symballo, composto dalle radici σύμ- (insieme) e βολή (getto), avente il significato approssimativo di “mettere insieme” due parti distinte. Il simbolo aveva quindi il significato di “tessera di riconoscimento”, secondo l’usanza per cui due individui, due famiglie o anche due città, spezzavano una tessera, di solito di terracotta o un anello, e ne conservavano ognuno una delle due parti a conclusione di un accordo o di un’alleanza. Il perfetto combaciare delle due parti della tessera provava, simboleggiava, l’esistenza dell’accordo.

Per estensione, il simbolo era il mezzo di riconoscimento di qualcosa di più profondo della sua stessa apparenza, ed esprimeva la pienezza del suo significato facendo ricombaciare due parti di uno stesso oggetto, precedentemente separate. «Il simbolo consente dunque di riconoscere qualcosa attraverso un confronto, un’unificazione (Lanzi C., 2004, pag. 13)».

Il simbolo non è pertanto un segno immutabile, ma diventa strada per acquisire la conoscenza, evocando delle realtà ad esso sottese, come l’altra parte della tessera da riunire. Il simbolo è assimilabile ad una via, ad un «mezzo per ottenere la conoscenza (Mainguy I., 2001, pag. 46)».

Insegnare vuol dire pertanto “imprimere un segno simbolico”, nel senso di disegnare nella mente e nel cuore dell’allievo la via per arrivare alla conoscenza. L’insegnante spezza la tessera della conoscenza, indicando la strada, ma lasciando che sia l’allievo a percorrerla: solo quando esso avrà compiuto il suo personale viaggio di apprendimento, allora potrà comprendere pienamente il senso dell’insegnamento, solo a quel punto la tessera della conoscenza sarà stata ricomposta.

Il discrimine tra l’imprimere segni predefiniti, e spesso plasmati egocentricamente sui propri orientamenti, e l’imprimere segni simbolici, ovvero l’indicare vie da percorrere per arrivare alla conoscenza, definisce la linea di confine tra l’insegnante-docente e l’insegnante-maestro: il primo si limita a trasferire all’allievo la propria conoscenza, come un travaso di nozioni e punti di vista dal recipiente-insegnante al recipiente-allievo; il secondo, invece, apre la mente dell’allievo verso mete della conoscenza che lui dovrà inseguire e gli gonfia le vele del cuore con il vento necessario per compiere il percorso.

E di ciò sono pienamente convinto, ma lascio che siano più nobili pensatori a dirlo meglio di me:

  • «Non posso insegnare niente a nessuno, posso solo cercare di farli riflettere (Socrate)».
  • «[Secondo la nostra consuetudine] il compito dell’educazione consiste nel dire agli altri ciò che ci è stato detto. Vorrei che ogni precettore correggesse questo metodo e che, sin dall’inizio, secondo le reali possibilità dell’allievo affidatogli, cominciasse a metterlo alla prova facendogli apprezzare da solo le cose, inducendolo a sceglierle e a discernerle autonomamente, ora aprendogli la via, ora lasciando che se la apra da solo. Non vorrei che il precettore parlasse soltanto lui ma che, a sua volta, ascoltasse il discepolo. Socrate, e dopo di lui Arcesilao, avevano l’abitudine di far parlare prima i discepoli e solo dopo parlare loro. «L’autorità dei maestri – diceva Cicerone – nuoce spesso a coloro che vogliono imparare» (Michel de Montaigne, 1533-1592)».
  • «Non possiamo insegnare nulla a nessuno. Possiamo solo aiutare qualcuno a scoprire quello che ha dentro (Galileo Galilei)».
  • «Non ho mai insegnato nulla ai miei studenti; ho solo cercato di metterli nelle condizioni migliori per imparare (Einstein)».

Ecco la vera sfida dell’insegnante: insegnare all’allievo a camminare ma senza volerne decidere i passi, guidarlo saldamente ma senza imporgli la strada.

1.2) Come insegnare?

Riflettendo sulle parole dei grandi in merito all’insegnamento, mi convinco sempre di più di quanto sia fondamentale e al tempo stesso carica di responsabilità la “libertà d’insegnamento”.

Sarebbe sbagliato imbrigliare le modalità d’insegnamento nelle maglie strette delle regole. E infatti la nostra Costituzione, all’art. 33, recita: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Il “come”, cioè la metodologia specifica con cui perseguire gli obiettivi dell’insegnamento, è rimesso alla libertà degli insegnanti. Emerge quindi una responsabilità personale degli insegnanti rispetto al modo in cui decidono di imprimere i segni.

Alla luce della sacralità della libertà delle modalità d’insegnamento, sarebbe un atto gravo proporre qui la mia personale ricetta, quindi non tratterò il tema delle diverse metodologie didattiche. C’è però un presupposto che deve accomunare tutte le possibili impostazioni: un insegnante deve insegnare, anzitutto, con l’esempio; quale credibilità avrebbe chi si comportasse in maniera opposta o incongruente rispetto a ciò che dice?  Come scritto nel testo “Règulateur du Maçon” del 1801: «[…] il buon esempio produce effetti molto più sicuri delle lezioni più sagge».

E ancora, è più importante il cosa s’insegna oppure il come s’insegna? È più importante il dato tecnico o il lato umano?

Il dato tecnico, anche insegnato con la più raffinata ed innovativa metodologia didattica, è bello di una bellezza sterile; solo l’attenzione al lato umano e profondo dell’insegnamento diventa utile alla vita degli allievi e, attraverso di loro, come onde concentriche, al mondo che incontreranno. Siamo giunti alla differenza tra sapere e comprensione (Saquella E.,  2008, pagg. 140-142): il primo lascia nell’allievo un segno superficiale che prima o poi sbiadirà; la comprensione invece imprime un segno profondo nell’allievo, avvicinandolo tramite il risveglio della coscienza all’essenza della conoscenza.

Nel libro “Incontri con uomini straordinari” di Georges I. Gurdjieff si legge un racconto che deve far riflettere: «Nella nostra confraternita ci sono due frati molto anziani; uno si chiama frate Akhel, l’altro frate Seze. Questi frati si sono assunti volontariamente l’onere di visitare periodicamente ogni monastero del nostro ordine e di esporre differenti aspetti dell’essenza della divinità. […] I sermoni dei due frati, che sono entrambi santi quasi allo stesso grado e che parlano delle medesime verità, producono effetti molto differenti su tutti noi […].

Quando parla frate Seze, sembra di udire il canto degli uccelli del paradiso. Nel sentirlo predicare […] si resta lì come stregati. La sua parola scorre come il mormorio di un fiume e non si desidera più nulla nella vita se non sentire la voce di padre Seze,

Quando predica frate Akhel, la sua parola ha l’effetto quasi opposto. Egli parla male, con voce indistinta, per via probabilmente della vecchiaia […]. Se i sermoni di frate Seze producono immediatamente una forte impressione, alla lunga tale impressione invece scompare e, alla fine, non ne rimane assolutamente nulla.

Quanto alla parola di frate Akhel, in un primo momento essa non produce quasi effetto. Ma, col tempo, l’essenza stessa del suo discorso acquista di giorno in giorno una forma più definita e penetra interamente nel cuore dove rimane per sempre. Colpiti da questa constatazione, ci mettemmo tutti a cercare perché ciò accadeva, e giungemmo alla conclusione unanime che i sermoni di frate Seze provenivano soltanto dal suo intelletto, e non agivano, di conseguenza, che sul nostro intelletto, mentre quelli di frate Akhel provenivano dal suo essere e agivano sul nostro essere (Gurdjeff G., 1999, pagg. 325-326)».

Dopo questo brano illuminante torniamo alla consapevolezza che occorre insegnare sia con la mente che con il cuore per riuscire ad imprimere segni sia nella mente che nel cuore dell’allievo; la qualità dell’insegnamento dipende quindi dalla qualità dell’insegnante.

  • «Non si insegna quello che si vuole; dirò addirittura che non s’insegna quello che si sa o quello che si crede di sapere: si insegna e si può insegnare solo quello che si è (Jaurès J., c.ca 1900)».
  • «Ciò che l’insegnante è, è più importante di ciò che insegna (Kierkegaard S., c.ca 1800)».

1.3) Perché insegnare?

Emerge qui, da solo ed in tutta la sua forza il perché dell’insegnamento.

Per dirla con Nelson Mandela «L’istruzione e la formazione sono le armi più potenti che si possono utilizzare per cambiare il mondo». Ecco allora perché è importante un buon insegnamento quale via verso un migliore futuro di ogni individuo e per il progresso dell’umanità.

Lo sfoggio di erudizione legato all’insegnamento del “sapere” è dunque atto sterile, mentre solo l’insegnamento della comprensione è realmente utile alla crescita dell’allievo.

 IL  “MIO INSEGNARE”,  PRIMA E DOPO LA LUCE

Dopo questa lunga premessa, desidero raccontarVi ora il mio personalissimo viaggio interiore dopo la luce dell’iniziazione massonica.

Cercherò di raccontarvi qui le due tappe fondamentali del mio percorso:

  • Prima della luce: successivamente all’illuminazione massonica ho provato a rileggere il “mio insegnare” prima della luce e, con grande stupore, mi sono accorto che pur nell’imperfezione più assoluta c’era nel mio insegnare già un DNA massonico…nulla capita per caso.
  • Dopo la luce: successivamente all’illuminazione massonica, il cammino interiore di perfezionamento che ho iniziato da apprendista prima e da compagno poi ha cambiato il mio essere, e con esso il “mio insegnare”.

2.1) Rilettura del DNA massonico nel “mio insegnare” prima della luce

Riguardandomi indietro ho ritrovato nel “mio insegnare” un DNA massonico che, pur nell’imperfezione immensa del mio essere, mi ha fare capire più in profondità il potenziale di “bene utile” all’individuo e al mondo chela Massoneriaporta in se.

Parto dalle virtù massoniche sociali, ovvero relative al rapporto tra persone, per poi soffermarmi dopo su quelle individuali.

Innanzitutto, mi sono accorto che nel mio approccio didattico prestavo molto attenzione all’ascolto dei miei studenti, con quel silenzio d’attesa che ha contraddistinto il percorso da apprendista. E ho scoperto che i ragazzi di 20-25 anni, pieni di dubbi e fragilità, spesso non desiderano altro che sentirsi ascoltati, che dividere il peso delle loro umanissime incertezze.

Ogni anno prima di iniziare il corso, e prima di ogni lezione, mi fermo a pensare come potrei perfezionare il mio approccio didattico per renderlo più utile ai miei studenti, in una massonica ricerca perseverante di un continuo miglioramento interiore che porti ad un miglioramento del rapporto con e tra i miei allievi.

In occasione della prima lezione di ogni anno accademico, faccio un patto con i miei studenti, intriso di rispetto in cambio di rispetto, in un rapporto biunivoco che mi consente di farmi rispettare dagli studenti senza però dimenticarmi di rispettare ognuno di essi e le loro opinioni. Cerco così di restituire loro la coscienza della propria dignità, troppo spesso schiacciata da colleghi troppo innamorati del proprio ego.

Da insegnante ho sempre cercato di garantire e favorire la massima libertà di pensiero e di espressione da parte dei miei studenti, considerandola come anima della dialettica più vera e più utile. Libertà, dunque, non intesa quale anarchica ed arbitraria esplicazione di ogni azione e come atto di affermazione personale nei confronti degli altri, ma concepita in puro senso massonico, e quindi fondata sul rispetto della dignità altrui.

Tra i fondamenti di una giusta libertà non si può trascurare la tolleranza. In primo luogo, l’insegnante deve spogliarsi della superba pretesa di essere il depositario della conoscenza, facendo zampillare il talento creativo degli studenti. È poi importante insegnare ai ragazzi il c.d. “gioco delle prospettive”, ovvero che uno stesso concetto può essere osservato da diversi punti di vista: quindi prima di propugnare il proprio credo quale unico e superiore, cerco di insegnare ai ragazzi che devono scambiarsi le prospettive, devono provare a vedere una stessa cosa con gli occhi del compagno; e non sapete quanto ciò è difficile ed al tempo stesso prezioso in aule con studenti provenienti da tutto il mondo, dalla Cina fino ad arrivare al Perù passando dall’Africa. Quindi tolleranza intesa quale mutuo e reciproco rispetto del pensiero, quale riconoscimento dell’equivalenza tra la propria verità e tutte le altre verità possibili.

Ma quale tolleranza è possibile senza una cultura dell’eguaglianza? E cosi ho sempre cercato di azzerare le diseguaglianze di fondo e di far partire ogni mio studente dallo stesso punto, appellandomi solo al proprio orgoglio personale: è mia prassi, contraria a quella di molti colleghi, di concedere la possibilità ed il piacere di fare la tesi insieme ad ogni studente a prescindere dalla media di partenza, chiedendo loro di azzerare il percorso universitario compiuto fino a quel momento e di fare dell’esame presente, oppure della tesi, il proprio capolavoro. Ecco l’eguaglianza tra studenti: ognuno deve essere posto in partenza nelle stesse condizioni di tutti gli altri e a ciascuno si devono dare le stesse possibilità di crescita: sarà la capacità personale, intesa anzitutto come amor proprio, a fare la differenza lungo il percorso.

Ma attenzione, quando scrivo fare la differenza, non la intendo nel senso “bocconiano” del termine, ovvero quale affermazione individuale a scapito di quella degli altri studenti, nella crudele giunga del “sopravviva il migliore della specie”. No, fare la differenza significa arrivare il più lontano possibile rispetto al proprio punto di partenza, significa sfruttare appieno il proprio talento, qualunque esso sia. E per arrivare più lontano, potrà essere determinante la mano fraterna di un compagno di viaggio. Per questo motivo faccio fare tanti lavori di gruppo ai miei allievi, per far capire loro che aiutandosi reciprocamente, in uno spirito di fraternità, si arriva tutti più lontano. Per dirla con Furetière A. (1690): «Fraternità significa vivere come fratelli, amarsi come fratelli».

Nel mio piccolo, tra un dato tecnico e l’altro, cerco di raccontare ai miei allievi esempi che possano aiutarli anche nel proprio umano percorso, affidando così alla forza degli esempi il racconto di virtù individuali quali:

  • Forza: cerco di insegnare ai miei ragazzi a coltivare la forza interiore dell’impegno verso i propri sogni, la forza d’animo per rialzarsi dopo le cadute, per andare avanti durante le prove, camminando con i piedi saldamente nel mondo e lo sguardo rivolto verso le stelle.
  • Temperanza: cerco di insegnare ai miei allievi a ricercare il senso della misura in ciò che fanno, sulla scorta della «mediocritas», ovvero della moderazione di Orazio nelle Satire («in medio stat virtus»), ma anche di Aristole nell’Etica Nicomachea: «μέσον τε καὶ ἄριστον», ovvero: il mezzo è la cosa migliore. La temperanza diventa quindi la virtù moderatrice ed equilibratrice degli impeti della forza.
  • Prudenza: cerco di insegnare ai miei studenti quello che è anche il principio fondante dell’economia reale, ovvero la prudenza, cosicchè sappiano valutare con coraggiosa intelligenza, ma senza ignavia, ogni passo da compiere, riflettendo prima di agire. Anche la prudenza modera la forza, rendendola intelligente.
  • Giustizia: premesso che la giustizia ultima e vera è solo del Divino, cerco di insegnare ai miei ragazzi ad agire chiedendosi se ciò che fanno è rispettoso degli altri e ricordando loro di non fare agli altri ciò che non vorrebbero fosse fatto ad essi.
  • Carità: cerco di insegnare ai miei ragazzi a dare generosamente senza chiedere e senza aspettarsi nulla in cambio.
  • Speranza: in un tempo in cui i giovani hanno perso il gusto del futuro, cerco di accendere nei loro animi il fuoco sacro della speranza, ricordandomi che: gli occhi del Maestro disegnano l’orizzonte nell’animo dell’allievo.
  • Fede: da ultimo, cerco di insegnare ai miei allievi ad affidarsi, ogni tanto, a qualcuno che cerca di guidarli verso l’orizzonte del loro futuro e a fidarsi dei propri compagni di viaggio. Un piccolo passo per imparare ad avere una fede più grande e trascendente versola Verità.

2.2) Come è cambiato il “mio insegnare” dopo la luce

Volgendo indietro lo sguardo ho scoperto quanto DNA massonico c’era già nel “mio insegnare” ai ragazzi la cultura del dubbio, nel mio chiedere agli allievi di mettersi in gioco per migliorare se stessi lungo la strada delle virtù: «Un buon insegnamento è più un dare giusti interrogativi che giuste risposte (Albers J., c.ca 1900)»Ma, al tempo stesso, cominciando a percorrere il mio cammino iniziatico di perfezionamento interiore, mi accorsi che proprio lì dove pensavo di avere compiuto tanti passi in avanti in realtà si celava il mio più grande errore, capace di vanificare tutti gli altri passi: mentre cercavo di insegnare ai ragazzi a mettersi in discussione, io avevo smesso di farlo, ammaliato dalla sirena del narcisismo che seduce tanti insegnanti che cercano di navigare il mare sconfinato della conoscenza illudendosi di conoscere già la giusta rotta.

  • «E’ ciò che pensiamo già di sapere che ci impedisce di imparare cose nuove (Bernard C., c.ca 1800)».
  • «Il maggiore ostacolo alla scoperta della verità non è la falsa parvenza derivante alle cose e inducente all’errore, e neppure, immediatamente, la debolezza dell’intelletto: invece, è l’opinione preconcetta, il pregiudizio che, come uno pseudo-a priori, si oppone alla verità e quindi somiglia a un vento contrario che respinge la nave dalla direzione nella quale soltanto si trova la terra: talchè  timone e vela sono invano operosi (Schopenhauer A., c.ca 1800)»

Dovevo spogliarmi dei metalli dell’ego: abbandonare i preconcetti, gli aprioristici giudizi di valore, lo sterile orgoglio e il pericoloso narcisismo (la c.d. insidia del grado), accettando di mettermi nuovamente in discussione e di essere messo in discussione.

E fu allora, nel riprendere in mano gli insegnamenti dei classici, nello rispolverare le parole abbandonate per seguire la strada dei numeri, che mi ricordai dei vecchi insegnamenti del passato: occorre imparare per insegnare.

  • «Qui docet discet», ovvero « colui che insegna impara» (Seneca, Lettere a Lucillo, 62-65).
  • «Acquisisci nuove conoscenze mentre rifletti sulle vecchie, e forse potrai insegnare ad altri (Confucio, c.ca500 ac)».
  • «Insegnare è imparare due volte (Joubert, Pensieri, 1838)».
  • «Sta attento a non voler diventare prima maestro e poi allievo, prima ufficiale e poi soldato. Sta attento a non imboccare una strada mai percorsa se non c’è chi ti insegni. Potrebbe essere una strada sbagliata. Nessun’arte si può imparare senza maestro. Ti occorrerà molto tempo per imparare ciò che devi insegnare (San Girolamo, c.ca 400)».

E ciò fu uno dei doni più grandi della mia iniziazione massonica, questa fu una delle luci più forti che illuminarono il buio delle certezze facili che si stava insinuando nel “mio insegnare”.

E allora iniziai a lavorare incessantemente su me stesso, cominciai a lavorare la pietra grezza sgrossandola di imperfezioni e preconcetti, spogliandola di umane passioni e debolezze alla ricerca di quelle virtù che oramai stavo insegnando senza più praticare nel profondo. Ricordando Mainguy I., potrei ripetere a me stesso «L’umanità non potrà mai veramente migliorare se stessa se non cominciando da ciò che si ha la capacità di trasformare (2001)»…occorreva che io ricominciassi ad imparare per poter insegnare meglio agli allievi.

E questo fu il nuovo inizio del “mio insegnare”: «Dubium sapiaentiae initium» – Il dubbio è il fondamento della conoscenza (Cartesio, C.ca 1600).

Poi un’altra illuminazione mi rischiarò la vista interiore durante il cammino iniziatico: nel momento in cui cominciai a capire il senso e il potere levigante dei rituali di loggia, allora acquisii la perseveranza per realizzare la prima illuminazione: la ciclicità scandita dei rituali mi restituì il senso del ciclo ricevere-conservare-restituire insito nell’insegnamento delle Grazie, delle Ore e delle Moire della mitologia Greca (Lanzi C., 2004, pagg. 30-35), e tale ciclicità divenne per me “imparare-fare proprio-insegnare”.

E’ proprio attraverso la ciclicità rituale che imparai quanta determinazione serve per eliminare le imperfezioni più insidiose, quelle interiori, quelle che riportano spigoli e asperità anche dove avevo già lavorato: dovevo dominare le passioni negative, nascoste nelle tempeste della vita che ho dovuto superare, per trovare l’equilibrio giusto di forza, temperanza, prudenza, giustizia, carità, speranza e fede e perseguire così la passione vera, quella verso la conoscenza. Dovevo attraversare il mare delle passioni cattive, perfezionando l’equilibrio della mia navigazione, per trovare la terra della serenità. Dovevo sentirmi Apprendista in cammino per sognare di diventare Maestro.  «In tutti i campi, la padronanza di un’arte o di una tecnica esige delle tappe di apprendistato: è dall’ascolto del Maestro, ma soprattutto dalla osservazione del Suo lavoro e dall’imitazione prima e dall’esigente ripetizione del gesto poi nonché dall’umile correzione degli errori che l’Apprendista giungerà alla fiducia in sé e potrà a sua volta diventare un Artista e ritrasmettere la sua conoscenza vissuta (Gigliuto G.)».

Fino all’illuminazione più grande di tutte: il seme deve morire per fare frutto. Occorreva che mi dessi completamente ai miei allievi, come facevo inconsapevolmente all’inizio del “mio insegnare”, e li aiutassi a superarmi per poter far germogliare veramente in essi il seme della conoscenza.

Ho detto

EDG:.

Ferrara, 19 Febbraio 2013 E.V.

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Se vuoi approfondire, leggi anche:

LA MASCHERA DI HIRAM

TRIBUTO A HYPATIA

LA SCELTA DI GIORDANO BRUNO

LA SCIENZA SCONSACRATA

IL “FUOCO DI RUOTA” E IL VIAGGIO INIZIATICO

LA CAZZUOLA DEL MAESTRO VENERABILE

IL CUBO E LA SFERA

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1 Comment for this entry

  • andrea

    Beh che devo dire; io ho avuto il piacere e l’onore di ascoltarla durante la serata in cui è stata esposta ed alla fine mi ha lasciato un segno positivo che tutt’ora porto con orgoglio, consapevolezza in virtù.
    Complimenti al Fratello(notevole per l’intensità dell’esperienza in prima persona),complimenti alla vostra Officina ed un fraterno grazie per l’accoglienza che ci avete riservato con la spontaneità che si riserba a veri Amici.

    Un TFA

    Andrea.

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