L’Anima Ribelle della Massoneria

Esiste uno spirito rivoluzionario congenito alle Logge? Fra di esse c’è anche chi ritiene che le passioni civili costituiscano un tradimento delle sue più antiche tradizioni esoteriche. Tanti massoni hanno comunque avuto il coraggio di sfidare tutto e tutti per i propri ideali. L’esempio di Felice Foresti cui è intitolato il Capitolo Scozzese di Ferrara.

Tavola del fr:. A.. Mu:.

Esiste uno “spirito rivoluzionario” congenito ai principi ed alla pratica massonica? I fratelli sentono in loro stessi questa anima ribelle, o no?!. Ed è giusto –dal punto di vista esoterico e massonico – nutrire e coltivare questa predisposizione (beninteso volta alla ribellione nei confronti dei soprusi, dei tiranni, dell’ingiustizia sociale)? E se così fosse, avremmo in noi il coraggio di mettere in gioco noi stessi, i nostri beni, la nostra carriera, ed in casi estremi la nostra stessa vita, per testimoniare quegli ideali e quei principi che bene o male tutti, fin dalla nostra iniziazione, abbiamo giurato di rispettare e difendere?

Storia, Tradizione e Coscienza non sempre forniscono risposte univoche.

In effetti stando alla storia un marker di ribellione congenita sembra ripetutamente riscontrabile nel sangue versato da tanti massoni per onorare il famoso trinomio Libertà, Uguaglianza, Fratellanza.

La Massoneria ha avuto infatti ruoli storici in tutte le più grandi Rivoluzioni dell’era moderna, da quella Americana a quella Francese, e nel nostro Risorgimento nazionale (per non tacere poi il ruolo di tanti grandi iniziati nell’altra grande rivoluzione del nostro Paese: il Rinascimento; magari con implicazioni meno cruente, inquisizione e roghi a parte).

Quindi in effetti la storia sembra affermare che fra i massoni esista una certa vocazione alla ribellione. Senza contare che alcune icone rivoluzionarie come il comandante Che Guevara, ed il prototipo del ribelle per antonomasia, il mitico Zorro, hanno adentellati massonici nelle proprie biografie.

La storia del “Che”, a noi più vicina, è nota. Meno nota la vera storia di Zorro. Le sue gesta in chiave letteraria furono inventate alla fine del XIX dal massone  Johnsoton McCulley per la rivista All-Story Weekly; rifacendosi in realtà ad un personaggio realmente esistito, un certo William Lamport, alias Guillen Lombardo de Guzman, nato in Irlanda nel 1615, costretto ad un certo punto della sua vita a rifugiarsi in Messico dopo anni trascorsi sui campi di battaglia ed anche nelle più pericolose alcove di dame della nobiltà europea; nel Nuovo Mondo non ebbe però miglior fortuna, nel 1642 fu arrestato dall’Inquisizione con l’accusa di aver tentato un colpo di stato basato su magia nera e stregoneria. In realtà William Lamport aveva dato vita ad una sorta di piccola crociata personale per liberare indios e schiavi neri. Alcuni suoi seguaci riuscirono a liberarlo dalla prigione, ma il vero Zorro, da coraggioso e disperato ribelle, non volle mettersi al sicuro oltre confine, e rimase in Messico per battersi ancora contro l’Inquisizione, da cui fu nuovamente sconfitto e condannato a morte.

Prima di salire sul patibolo ebbe il tempo di scrivere un suo memoriale, che arrivò due secoli dopo fino a McCulley passando di loggia in loggia. Ed a ribadire l’ascendente massonico della leggenda di Zorro, anche la sua mitica “Z” sembra essere un preciso richiamo alla Zizà o Aziz (Splendore) raffigurata all’interno dei Capitoli Scozzesi.

Ma certamente non tutti possiamo essere Zorro,. non tutti possiamo permetterci il suo coraggio: di sicuro non faremo molta strada sfidando le autorità e gli attuali poteri forti con una semplice mascherina nera sul volto!

Tanto più che i nostri Land Marks, le nostre più antiche costituzioni, ed il nostro stesso giuramento iniziatico ci impongono prima di tutto di essere probi cittadini ligi alla Costituzione del nostro paese ed alle leggi che ad essa si conformano. Nelle formulazioni più antiche si imponeva ai fratelli liberi muratori di essere sudditi fedeli e di buoni costumi, ma si afferma anche il principio che se un fratello si fosse ribellato all’Ordine Costituito, per ragioni dettate dalla sua buona coscienza, avrebbe dovuto astenersi dal frequentare la loggia, ma non avrebbe mai perso la sua qualificazione di iniziato. Insomma anche la Massoneria più antica ed ortodossa non ripudiava fino in fondo i propri fratelli più ribelli. Anche perché forse avrebbe significato sconfessare anche il proprio atavico patrimonio genetico: i massoni, infatti, si ritengono discendenti da un grande ribelle biblico, Caino, il primo fondatore di città; mentre un’altra corrente di pensiero interna alla massoneria fa risalire il proprio percorso sapienziale addirittura alla propria Grande Madre Eva, il primo essere, donna, a venire iniziato alla Conoscenza tramite la sua trasgressione: la prima ribellione del genere umano.

C’è però un fatto, all’origine di molte querelle ed anche di molti equivoci all’interno della massoneria, ed è l’assonanza o meno di questo spirito ribelle con la vera e antica Tradizione massonica, e soprattutto con il senso più genuino del suo esoterismo e del suo simbolismo che dovrebbero essere l’unico viatico reale per completare l’Opera e per perseguire il proprio perfezionamento interiore.

Un grande iniziato ed un grande esoterista come Arturo Reghini (1878-1946) affermava senza mezzi termini che le passioni civili  costituivano un inquinamento della più autentica Tradizione Iniziatica. Il lavoro iniziatico deve essere concentrato sull’Uomo, su se stessi, sui propri livelli di coscienza e conoscenza. E non vi era nell’antichità alcuna istanza di progresso sociale legata a tale percorso iniziatico.

La missione e la fede massonica in una possibile palingenesi sociale propiziata dai lavori e delle Officine muratorie, è una sovrapposizione (Reghini la bolla come un falso dogma ottimistico) filtrata nei rituali e nello spirito dei fratelli massoni solo a partire dal XVIII secolo, il secolo dei Lumi e delle grandi Rivoluzioni. Lo stesso trinomio massonico non risale nemmeno alla riforma inglese del 18717 né a quella del 1720, ma è un innesto francese di diversi decenni dopo.

Dunque le passioni civili secondo Reghini sono una chiara deviazione, ed un drammatico inquinamento della Tradizione Esoterica Universale della Massoneria.

Vale la pena di ricordare che i nostri stessi rituali ci danno perentori avvertimenti in questo senso, ricordandoci sempre che in Loggia è bandita qualsiasi discussione di politica e di religionse.

Dunque il ribelle tradisce e sfida la stessa Massoneria? E’ una domanda alla quale personalmente non so dare risposta. Un certo sentimentalismo personale da vecchio progressista (socialista) mi fa nutrire da sempre una spontanea simpatia per queste figure: l’anticonformista ed il ribelle (ma anche l’eretico e l’innovatore).

Credo che siano uno dei poli energetici della stessa Massoneria, accanto a quello opposto degli spiriti più tradizionalisti e conservatori. Insieme nella stessa Loggia, insieme con cariche elettriche opposte, ma sempre insieme nel cercare l’equilibrio e la sintesi fra le Colonne… altra cosa, fuori da esse.

E  non a caso grandi svolte storiche, come quella della Rivoluzione Francese e quella dello stresso Risorgimento italiano, hanno sicuramente preso ispirazione delle idee e dai principi elaborati dalle logge, ma poi queste idee e questi principi si sono trasformati in azione al di fuori delle logge stesse, tramite altre forme più o meno clandestine di organizzazione. Diverso è il discorso della Rivoluzione Americana che ha compiuto un percorso quasi interamente legato alle logge massoniche, dalla rivolta del Tè (1776) partita dalla loggia S.Andrea di Boston, al momento in cui George Washington ha giurato come primo presidente degli Stati Uniti sulla Bibbia della loggia “St John n.1” di New York.

In Francia – scrive M. Volpe  (in “Massoneria e Rivoluzione”) – troviamo in quegli anni, una Massoneria Scozzese di tipo tradizionale, dedita a studi  filosofici a ricerche “esoteriche” a esperienze mistiche, a fianco di una Massoneria Scozzese che, sul filone della Massoneria templare e più ancora dell’Illuminismo di Weishaupt, si dedica prevalentemente alla propagazione delle idee libertarie e egualitarie con intenti di attiva operatività nella costruzione di una nuova società civile.

Esistevano quindi già all’interno della Massoneria diversi atteggiamenti culturali e spirituali. E non si può quindi certo parlare di un’unica identità filo-rivoluzionaria della massoneria di allora. Massoneria che è stata, tramite molti suoi uomini, protagonista e al tempo stesso vittima del processo libertario, purtroppo tracimato nel terrore, che essa stessa aveva innescato.

Si può senz’altro dire che l’apporto iniziale della massoneria era sicuramente rivolto ad una rivoluzione per così dire più moderata.

Durante i primi 2 anni della rivoluzione – scrive ancora Volpe –  i capi rivoluzionari provenivano dalla nobiltà e dalla Massoneria, come ad esempio il generale La Fayette che aveva preso parte alla Rivoluzione americana. Si trattava per la maggior parte di elementi “moderati” con l’aspirazione ad una monarchia costituzionale, alla realizzazione di una società libera e democratica intrisa delle idealità massoniche.

Ma poi sappiamo che lo scontro si fece terribilmente più estremo e sanguinoso. Ed in quella fase si trovarono massoni contrapposti in entrambi gli schieramenti, quello rivoluzionario e quello antirivoluzionario.

Ne fa una sintetica rassegna il già citato Volpe: “… nella battaglia di Valmy (20 settembre 1792) vediamo contrapposti due “Fratelli”: da un lato, a capo dell’esercito francese il generale Dumouriez, dall’altro, a capo dell’esercito alleato austro-prussiano, il duca di Brunswick, di cui è noto il minaccioso proclama di distruggere Parigi.  Massone era Chaumette, tra i capi della Comune di Parigi, ateo e repubblicano, acerrimo nemico del re, ma massone era anche François Charette capo degli insorti Vandeani.  Massoni erano Danton e Desmoulins, massone l’abate Sieyès ecc… “.

Schiacciata fra i due fronti,la Massoneria ne fu inesorabilmente travolta. Al tempo della Convenzione le 600 logge francesi dovettero chiudere una dopo l’altra (ne restarono operative meno di una decina).

Si assistette in quel periodo a numerosi esempi di coraggio nel difendere l’Istituzione e gli ideali massonici, ma anche a clamorosi casi di viltà come quello (1793) del Gran Maestro Duca Filippo d’Orleans (il cui voto era già stato decisivo per la condanna di Luigi XVI) il quale per salvarsi (senza successo) dalla ghigliottina abiurò e rinnegò pubblicamente la Massoneria (venne giustiziato sei mesi dopo).

Con ben altra dignità salirono sul patibolo moltissimi altri massoni celebri, come lo scrittore Jacques Cazotte (1719-1792) ed il poeta lirico André-MarieChénier (1762-1794), della Loggia “Les Neuf Soeurs”, condannati per la loro fedeltà all’ideale monarchico costituzionale, o come il loro confratello di Loggia, il marchese di Condorcet, che si avvelenò in carcere. Fra i giustiziati vi furono anche massoni appartenenti al clero, fra questi Jean-Marie Gallot, che sarebbe stato proclamato beato da Pio XII (nonostante la sua appartenenza alla Libera Muratoria, caso più unico che raro).

Volendo lo stesso Luigi XVI può essere considerato una delle vittime massoniche della Rivoluzione. Parrebbe infatti che lo stesso sovrano ed i suoi due fratelli, il conte di Provenza ed il conte d’Artois, fossero stati iniziati pochi anni prima, nel 1775, in una Loggia appositamente fondata a Versailles.

I fatti francesi ebbero naturalmente una forte ripercussione anche in Italia, con una serie di onde sismiche della storia che si sono prolungate fino a tutto il Risorgimento italiano e per certi versi, come vedremo, stanno ancora scontando conseguenze (non sempre piacevoli) per la nostra Istituzione.

Procediamo per gradi, sia pure in una rapida sintesi. La Massoneria italiana che fino ad allora, pur guardata con sospetto dalla Chiesa, aveva potuto godere di una sostanziale immunità, grazie al favore che le era accordato da molti regnanti, in particolare la massoneria napoletana apertamente protetta dalla regina Maria Carolina, moglie di Ferdinando V, sorella di Maria Antonietta regina di Francia.

Maria Carolina era stata lei stessa iniziata nella Loggia di Adozione Saint Jean du Secret et de la Parfaite Amitié impiantata da Giuseppe Medici, principe di Ottajano. Di questa loggia faceva parte anche la prima donna del Teatro San Carlo, Antonia Bernasconi, che durante una rappresentazione, si narra, abbia fatto il segno della massoneria, riscuotendo autentiche ovazioni.

Con il benvolere della Regina prosperava evidentemente anche la Massoneria maschile. Ma tutto finì con la presa della Bastiglia, l’incarcerazione della sorella e di suo marito Luigi XVI, il loro processo e la loro esecuzione (non prima che alla stessa Maria Antonietta fosse mostrata qualche mese prima, infilzata su una lancia, la testa della sua amica, la principessa di Lamballe, Gran Maestra dell’Ordine femminile).

Maria Carolina si sentì tradita, e da patrona divenne spietata persecutrice della massoneria. Ma la stessa cosa più o meno accadde in tutta Italia. La tolleranza dei potenti verso la Massoneria venne progressivamente meno, e così anche la rappresaglia della Chiesa ebbe buon gioco.
A farne le spese fu soprattutto il conte di Cagliostro, che si riteneva allora il capo della massoneria italiana, e che abbandonò la protezione ed il rifugio sicuro che gli erano stati offerti dal Principe-Vescovo di Trento,  Virgilio Thun, per recarsi a Roma con il proposito di parlare con il Papa e perorare la riconciliazione fra la Chiesa e la Massoneria. Lo stesso errore che poco meno di un secolo prima aveva fatto il povero Giordano Bruno, che pagò il suo desiderio di dialogo sul rogo.

Cagliostro arrivò a Roma proprio mentre maturava la rivoluzione di Parigi. Quei fatti, dietro i quali la Chiesa vedeva l’opera cospirativa della Massoneria e pensava che si trattasse di un piano universale di sovvertimento dei grandi regni europei, e naturalmente anche del Regno Pontificio, indussero una reazione isterica e violenta da parte del Papa, che fece arrestare il conte, facendogli subire un processo che oggi definiremo “farsa” (al povero Cagliostro furono estorte umilianti confessioni), e che si concluse con la condanna a morte (sul rogo), trasformata per grazia del Papa in carcere a vita nella fortezza di San Leo. Una detenzione con modalità e sofferenze peggiori forse di quelle del patibolo. Crudeltà di cui il Papa ed il suo segretario di stato card. Zelada erano costantemente informati, e che loro stessi ordinavano di rendere ancor più pesanti.
Si voleva spezzare l’uomo prima chela Massoneria, questo temeva il Vaticano, tentasse qualche azione di forza per liberarlo. Ed in effetti il povero Cagliostro morì pochi mesi prima che l’Armata francese raggiungesse San Leo per ridargli la libertà.

Ora la figura di Cagliostro non ha solo a che fare con la storia della Massoneria. In realtà deve ancora essere approfondito anche il ruolo che ebbe nell’ispirare idee ed azioni risorgimentali. Basti pensare che fu lui in realtà ad inventare per primo il tricolore (bianco, rosso e verde) in forma di nastri, all’interno delle sue logge. Idea che poi fu colta e fatta propria dalla Repubblica Cisalpina (Aldo Mola dice senza mezzi termini “scopiazzata”) che fece del tricolore la prima bandiera di un’Istituzione della Nuova Italia.

Ci furono dunque tanti e complessi rivoli di supporto alla causa italiana da parte della Massoneria (alcuni ancora da esplorare più a fondo come il ruolo delle donne massone e carbonare, che si chiamavano fra di loro “Giardiniere”; a quello di tanti altri personaggi provenienti dalla massoneria). Tanto sangue fu versato da suoi appartenenti.

Sangue che rende oltremodo odioso il tentativo in atto da parte di ambienti e storici cattolici di adombrare e marginalizzare il ruolo della Massoneria nel riscatto risorgimentale. Risorgimento di cui una certa nouvelle vogue dello storicismo cattolico sembra anzi volersene perfino appropriare, giungendo a voler celebrare in proprio perfino la Breccia di Porta Pia.

I cattolici intendono ritagliarsi nell’offuscamento della memoria un ruolo da protagonisti nelle lotte per l’unità della nazione. Non si può negare che all’epoca vi furono moti popolari di impronta cattolica (per altro rivolti principalmente contro le truppe napoleoniche; una simile resistenza armata si verificò anche nel Ferrarese, più precisamente nella zona di Copparo, dove vi era evidentemente un clero molto attivo e convincente, tant’è che nella stessa zona, nel momento del successivo  plebiscito di annessione al Regno d’Italia, si registrò l’unico esito elettorale contrario ad esso, dell’intera regione).

Un’opera di disinformazione e di perenne calunnia a mezzo stampa che viene da lontano. Guarda caso proprio dal processo al povero Cagliostro. Il giudice fiscale di quello stesso processo, Mons. Barbieri, diede infatti alle stampe subito dopo la sua conclusione un “Compendio della vita, e delle gesta di Giuseppe Balsamo denominato il conte di Cagliostro, che si è estratto dal Processo contro di lui formato a Roma l’anno 1790 e che può servire di scorta per conoscere l’indole della Setta de’ Liberi Muratori”, Roma 1791”, pubblicazione che fu immediatamente diffusa in tutto il continente, tradotta in  varie lingue e con numerose edizioni.

Avrebbe dato lo spunto a tutti i successivi libelli antimassonici.  Come lo feccero i 5 volumi intrisi di tesi assurde sulle violenze massoniche durante la rivoluzione giacobina dell’abate Barruel;  o il libello “I progetti degl’increduli a danno della religione disvelati nelle opere di Federico il Grande re di Prussica” di don Luigi Mozzi, pubblicato ad Assisi l’anno seguente della Rivoluzione, in cui si legge: «Tre sono le Sette, le quali o nate o rinvigorite in questo secolo hanno primieramente prodotto la memoranda rivoluzione, in cui ci troviamo involti, facendo servire alla medesima una serie di persone, e di autorità da esse stranamente e in diversi modi illuse e sedotte. Una è la setta de’ Liberi Muratori, e quelle che da essa emanano; l’altra la Setta de’ Giansenisti; la terza quella de’ Filosofi».  E sui “Franchi Muratori” rincara la dose: la «fratellanza, che dovendo stabilirsi tra persone di diverso grado, è incompatibile con le varie Gerarchie, che Iddio ha voluto per buon ordine del mondo, e ne viene perciò il rovesciamento di ogni sistema civile e religioso».

Tutte storie al limite fra falsità e verisimiglianza, per questo più subdolamente credibili, in grado cioè di creare permanenti luoghi comuni antimassonici nell’opinione pubblica (a nulla valgono poi le clamorose smentite e confessioni alla Leo Taxil per intenderci). A ben vedere si tratta degli stessi luoghi comuni e degli stessi pregiudizi che vengono ancora oggi sparsi sulla Massoneria da parte della stampa, quella più vicina alla Chiesa, così come quella più pigra e popolare, che ripete senza alcun approfondimento e senza alcun distinguo, una storiella “imbeccata” due secoli fa.

Resta comunque il fatto che allora fratelli come noi, persone come noi, che si riunivano come stiamo facendo oggi noi, ebbero il coraggio di essere massoni fino in fondo, sfidando tutto e tutti. Mettendo a repentaglio l’intera loro esistenza, la loro carriera, i loro affetti, per l’ideale nazionale.

C’è da chiedersi se avremmo noi altrettanto coraggio, altrettanta abnegazione, oggi?

Un esempio di questo mettersi in gioco totalmente è quello dello stesso Felice Foresti, cui è intitolato il Capitolo ferrarese del Rito Scozzese. Forse non tutti ne conoscono la storia nei dettagli, ed allora vale la pena di spendere ancora qualche minuto per rendergli onore e memoria.

Felice Foresti, è nato nel 1879, al confine fra la provincia di Ferrara e quella di Ravenna (a San Biagio di Argenta secondo alcuni, a Conselice secondo altri, registrato all’anagrafe con il nome per esteso di Felice Eleuterio Foresti), ha conosciuto più di ogni altro gli scacchi neri e quelli bianchi che nel pavimento delle logge massoniche rappresentano appunto le vicissitudini della vita, l’altalena fra il bene ed il male, le luci e le ombre, ovvero le avversità e le prove che possono mettere a repentaglio i nostri principi, compresi nel suo caso ben quindici anni di carcere duro nelle tetre celle dello Spielberg, la fortezza austriaca, nei pressi di Brno (oggi nella Repubblica Ceca) in cui vennero rinchiusi molti dei patrioti del risorgimento italiano; lo stesso carcere delle famose “Mie Prigioni” di Silvio Pellico.

Dal baratro dello Spielberg (non si tratta di una semplice espressione metaforica, all’interno della Fortezza austriaca vi era davvero un profondissimo baratro naturale, un pozzo cavernoso, nel quale trovarono la morte diversi prigionieri) ai massimi onori diplomatici: questa fu la parabola del “cospiratore” Felice Foresti che ebbe una seconda vita negli Stati Uniti, giungendovi come povero esule nel 1836 e ripartendone come console americano in Italia, nominato direttamente dal Presidente degli Stati Uniti, Franklin Pierce, nomina confermata dal suo successore  James Buchanan che lo impose ai reticenti Savoia, poco propensi a perdonargli i trascorsi repubblicani al fianco di Mazzini.  Alla sua morte, nel 1858, la sua bara fu quindi avvolta nella bandiera stelle e striscie, e la sua inumazione nel cimitero di Stagliano fu accompagnata dalle salve di un picchetto d’onore della Marina statunitense.

Foresti, nella sua movimentata esistenza, ha vissuto l’incanto ed il disincanto degli ideali napoleonici prima, di quelli mazziniani poi, ma ha sempre mantenuto ben salda la sua fede nell’ideale risorgimentale dell’indipendenza e dell’unità d’Italia.

Felice Foresti è stato dunque giovane soldato napoleonico (volontario a 16 anni), agli ordini del generale Massena, nella campagna che portò alla presa di Venezia.

Richiamato in famiglia dal padre, possidente agrario di stampo filo austriaco, abbandonò la carriera militare (anche per l’insorgere di qualche dubbio sulla politica napoleonica) e completò gli studi di giurisprudenza, senza troppo entusiasmo, nel 1805, coltivando parallelamente una grande passione per la letteratura.

Fu comunque una vicenda legale a cancellare definitivamente in lui le simpatie per la politica napoleonica: appena laureato gli fu infatti affidata la difesa d’ufficio di alcuni “banditi”, ovvero cittadini emiliani che si opponevano soprattutto alle tasse predatorie imposte dai francesi, e fu così che il giovane avvocato ferrarese fu testimone in prima persona della spietata repressione con cui gli stessi francesi rispondevano ad ogni ribellione.

Quando cadde Napoleone, e si verificò il ritorno degli Austriaci nelle terre del Polesine e del Ferrarese, Felice Foresti, che nel frattempo era divenuto giudice di pace nel Comune di Crespino in territorio rodigino, non si sconvolse più di tanto, considerando gli Austriaci una sorta di “male minore”, anche e soprattutto nei confronti della dominazione pontificia. Nella sua autobiografia, conservata nella Biblioteca Vaticana (sic), a proposito di questo passaggio si legge: “I giovani preferivano il governo austriaco a quello teocratico, mostruoso dello Stato pontificio. Io era con essi; dei due mali, l’austriaco era il minore.”

Dunque Foresti, anche sotto l’amministrazione austriaca, era e rimaneva un fervente patriota dedito alla causa dell’indipendenza italiana. Come tale, mentre proseguiva la sua carriera nella magistratura (era diventato nel frattempo Pretore), fin dal 1817 aveva attivamente aderito alla Carboniera, organizzando “vendite” (così si chiamavano le logge carbonare) a Rovigo, Fratta, Crespino ed in altri paesi vicini. Il nucleo principale era ubicato a Rovigo, nella cosiddetta “Vendita del Piccolo Adige“. Lo stesso Foresti fu il principale fautore di un summit clandestino tenutosi nel 1817 a Ferrara, nell’oratorio di San Ludovico, nel quale si gettarono le basi di azioni comuni e coordinate dei carbonari romagnoli, ferraresi e polesani.

A farlo scoprire ed arrestare nel 1819 fu una delazione , probabilmente ad opera del nipote di una nobildonna di Fratta Polesine, Elena Cecilia Monti, sua amica e protettrice dei patrioti, che non esitava ad accogliere nella propria casa.

Le manette scattarono ai polsi di Felice Foresti nella notte fra il 6-7 Gennaio, all’indomani di una serata danzante tenutasi nella Sala degli Arazzi dell’Accademia dei Concordi di Rovigo.

La vicenda suscitò un incredibile clamore (un giudice compromesso con i carbonari!), e nonostante la sua abilità oratoria nel difendersi alla fine Felice Foresti si vide condannare a morte per alto tradimento. Solo un cavillo, in extremis, e la grazia dell’Imperatore lo salvarono dal patibolo, commutando la sentenza capitale in venti anni di carcere duro allo Spielberg.

Nel penitenziario austriaco Foresti fu compagno di prigionia di Silvio Pellico e del musicista Piero Maroncelli (lo stesso di cui viene descritta la tremenda amputazione di una gamba, per cancrena, in un famoso episodio de “Le Mie Prigioni”; lo stesso che diversi anni dopo lo aiutò materialmente e moralmente ad affrontare l’esilio americano ed a inserirsi nella nuova patria statunitense).

Le condizioni di detenzione erano davvero tremende, tanto che Felice Foresti fu spinto per ben due volte a tentare il suicidio.

Ottenuta la liberazione dopo 15 anni di carcere duro, lo stesso Foresti scelse l’esilio, per un brevissimo periodo in Francia, quindi da lì negli Stati Uniti.

Sbarcò come tanti altri poveri emigranti italiani ad Ellis Island, nello Stato di New York, subendo tutte le umilianti procedure di identificazione e di profilassi sanitaria.

Al di là della dogana, trovò fortunatamente ad attenderlo il vecchio compagno di prigionia, Piero Maroncelli, che lo aveva preceduto negli Stati Uniti. Fu proprio Maroncelli ad aiutarlo nel trovare lavoro e nel rifarsi una vita nella nuova patria oltreoceano. Ma Foresti non dimenticò mai la causa della sua prima patria, l’Italia, ancora divisa e sotto il giogo di potenze straniere e del Papato.

Foresti dava lezioni private di lingua e letteratura italiana. Nel 1838 vi fu una svolta fondamentale: alla morte di Lorenzo da Ponte gli venne proposta la sua cattedra al Columbia College di New York. E da qui cominciò una nuova acclamata carriera accademica, che lo vide approdare nel 1842 come insigne docente alla New York City University, preceduto dal successo di una sua pubblicazione sulla Grammatica ela Crestomazia italiana.

I successi accademici americani non lo distolsero affatto dai suoi sentimenti e dall’azione patriottica, anzi proprio a New York vi diede un formidabile impulso creando una sezione americana della Giovane Italia, e promuovendo cospicue raccolte di fondi per la causa mazziniana fra gli emigranti italiani non solo degli Stati Uniti, ma anche a Cuba, in Messico e nelle Indie Occidentali.

Tornò in Europa nel 1843, ed in questa occasione ebbe l’opportunità di incontrare Giuseppe Mazzini. La conoscenza diretta del suo “maestro ispiratore” gli permise però di intravvedere anche i limiti della sua personalità, che gli apparve decisamente dispotica. Il sanguinoso epilogo dei moti italiani del ’46 e del ’49, intempestivi e mal preparati, con tanti patrioti inutilmente mandati a morire, obbligarono Foresti ad una riflessione critica sulla sua adesione agli ideali mazziniani (pur continuando a raccogliere fondi per la causa).

Ma fu l’incontro con Giuseppe Garibaldi, giunto anch’egli esule a New York, a riscaldare l’entusiasmo e gli ideali risorgimentali di Felice Foresti.

Egli comprese i limiti dell’azione mazziniana, e soprattutto comprese, con realismo, che soltanto il sacrificio degli ideali repubblicani, ed una più stretta connessione con la monarchia sabauda, avrebbe potuto, grazie anche all’abilità militare di Garibaldi, condurre alla liberazione della patria dal giogo straniero.

E così, dal 1849 in poi, si adoperò per sostenere Garibaldi, invitando i giovani italoamericani ad arruolarsi fra i suoi volontari.

Tutto questo mentre lo stesso Foresti abbinava alla causa patriottica, una sentita azione sociale nella comunità americana impegnandosi in campagne contro la povertà, per l’istruzione e per le cure sanitarie dei meno abbienti.

In questo periodo diede vita anche un’intensa attività editoriale, fondando a partire dal 1850 la rivista “L’Esule” , in lingua italiana.

Il suo attivismo sociale e la sua specchiata onestà intellettuale lo fecero notare ed emergere nella società americana, e nel 1853 giunge la nomina presidenziale di Foresti a console americano a Genova.

Sarà proprio in questa veste (a dir il vero non graditissima a Casa Savoia, che inizialmente di oppose alla nomina, creando un imbarazzante contenzioso con gli Usa, contenzioso risolto a favore del console italiano dal successivo presidente Buchanan che era nel frattempo succeduto a Pierce) che lo stesso Foresti ebbe modo di far incontrare per la prima volta Garibaldi e Cavour.

Il suo fu quindi un ruolo fondamentale per le sorti del Risorgimento Italiano.

Felice Eleuterio Foresti si spense il 14 Settembre 1858 a Genova. Non potè quindi vedere compiuta l’unificazione del Paese per la quale si era tanto battuto. Ma ricevette comunque i massimi onori dalla sua nuova patria, gli Stati Uniti, terra di libertà e fratellanza, che presenziarono alla cerimonia funebre con un picchetto d’onore della marina.

Sulla sua tomba, nel cimitero monumentale di Stagliano, è inciso questo epitafio:

“Eleutrerio Felice Foresti da Conselice

insegna colla sola virtù del suo nome lagrimato

come fortezza d’animo, gentilezza di cuore e bontà d’ingegno

possano vincere la prova di una immediata sventura

da che due anni di prigione in Venezia,

dodici nella roccia dello Spielberg

e diciotto di onorato ed operoso esiglio in America

non valsero a scemargli la fede nelle sorti della sua terra

che lo rivedeva alla perfine cittadino degli Stati Uniti

i quali affidavano il loro libero ed audace vessillo

a quelle mani che per libertà furono impedite di catene

moriva in Genova di anni LXIX

XIX Settembre dell’anno MDCCCLVIII”

.

Questo fu dunque Felice Foresti. Noi oggi ci riuniamo nel suo nome, ma mi chiedo e vi chiedo: lo facciamo con il suo stesso coraggio? Se non nel ribellarci a chi sta gettando in rovina questo Paese, almeno nel dare testimonianza di quegli ideali ai quali abbiamo giurato di consacrare la nostra vita… od un semplice articolo di giornale può indurci a nascondere subito i nostri grembiulini?

 

Ho detto

A:. Mu:.

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28 Gennaio 2013

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