UN APPASSIONATO DESIDERIO DI “PATHOS”

Il logos da solo, senza un minimo di pathos, può contenere verità straordinarie, ma non arriverà mai a rappresentare la potenza e la gloria di Dio: la parola, da sola, vive in un solipsismo che non conosce gravami… ma nemmeno gioia profonda! Anche i simboli necessitano di "pathos": l'esempio di Mandela e la squadra sudafricana di rugby.

inserito il 07 05 2015, nella categoria Etica, Filosofia, Società, Sport, Tavole dei Fratelli

PATHOS

Tavola del fr:. G:. P:.

Tra le varie connotazioni che sono state attribuite dagli studiosi ad Aristotele, ve n’è una di particolare attualità ancora oggi, in un mondo dove tutto gira ed evolve con incredibile rapidità attraverso i canali dell’informazione e della comunicazione.

Il filosofo ateniese infatti, 300 anni prima di Cristo, può essere considerato il primo docente in “Scienze della comunicazione”, a lui va il merito di avere raccolto in un sistema organico tutte le acquisizioni esistenti fino ad allora, facendo così della “Retorica” una vera e propria tecnica rigorosa, elevandola dal mero significato di “arte della persuasione” ed incentrando invece l’analisi sullo studio dei mezzi di persuasione, veri e propri strumenti, indipendenti dall’oggetto argomentato.

Ecco quindi che Aristotele individua tre componenti fondamentali di un ragionamento e del suo conseguente discorso esplicativo: l’ETHOS, il LOGOS e il PATHOS.

ETHOS: è letteralmente “il posto da vivere”, ma il suo significato normalmente viene esteso fino ad indicare “capacità morale”. Dalla stessa radice greca deriva il termine “etica”, stile di vita. Aristotele sottolinea che un oratore deve esordire nel proprio discorso con frasi semplici, comprensibili da tutti ma soprattutto piene di verità, in questo modo avrà stabilito con i propri uditori il giusto ethos. Un altro elemento fondamentale per il raggiungimento di questo risultato è dato dal temperamento e dalla solidità morale legata alla storia personale dell’oratore stesso.

LOGOS: è la parola, il linguaggio, cioè l’espressione di nozioni, di cose relazionate da elementi che indicano un essere, un avere, un fare, ecc. La logica si deve articolare tra parole e ragionamenti che, opportunamente sviluppati, portano poi ad uno o più giudizi.

Il logos è la parte razionale della retorica, richiede competenza e conoscenza perchè la verità può emergere solo da argomentazioni, anzitutto corrette e, in secondo luogo, chiaramente espresse.

PATHOS: letteralmente “sofferenza”, “emozione”, secondo il pensiero greco è una delle due forze che regolano l’animo umano con estrema irrazionalità, contrapponendosi dunque all’elemento razionale del logos.

Un abile oratore convince i suoi uditori che le proprie argomentazioni sono valide mediante il logos e l’ethos, ma ne suscita sentimenti ed emozioni usando sapientemente il Pathos, con il quale conquista chi lo ascolta, ne travolge l’animo e lo porta a schierarsi dalla parte dell’idea o della causa appena esposta.

Contrapposto al pathos invece, è lo stoicismo. Le religioni di matrice cristiana ne fanno largo uso soprattutto per invitare l’uomo comune a liberarsi dal pathos: “Colui che vuole essere consapevole signore di sé deve imparare a camminare sulla via della imperturbabilità e del distacco, imponendosi, appunto, l’a-patia. L’uomo deve affrancarsi dal desiderio, dalla paura, dal dolore e dal piacere, che costituiscono le 4 specie fondamentali delle passioni, fonti di infelicità.”

Anche gli antichi, nobili testi del Taoismo e del Buddhismo peraltro, insistevano sul “Tao”, la Via, intesa quale eterno silenzio, calma perenne, perchè il cielo non parla e non ode gli affanni umani.

A questo punto però ci imbattiamo in un bel problema, in quanto questi insegnamenti ci sono stati impartiti da profeti e da antichi saggi, e se ne investighiamo la vita scopriamo che questi “Uomini della parola” mettevano nei loro messaggi un coinvolgimento passionale che è ben altra cosa rispetto ad uno stoico distacco. La voce dei profeti è sempre impregnata di Pathos, perchè essi non si sono limitati ad annunciare la parola di Dio, ma sono andati oltre: ne sono diventati responsabili!

Il logos da solo, senza un minimo di pathos, può contenere verità straordinarie, ma non arriverà mai a rappresentare la potenza e la gloria di Dio: la parola, da sola, vive in un solipsismo che non conosce gravami… ma nemmeno gioia profonda!

Perfino il Deuteronomio ci racconta che, nell’ora della morte, l’anima di Mosè si ribellò, rifiutandosi di lasciare il corpo ed ingaggiando così una lunga ed estenuante lotta con Jhwh, in quanto Mosè desiderava ardentemente morire nella terra promessa.

Il Signore però si mostrò irremovibile e non accolse questa preghiera; prese dunque la sua anima con un bacio sulla bocca e così il servo di Dio morì là, nel paese di Moab, incontrando però finalmente il volto di Jhwh, tanto anelato, ed ecco la terra promessa, ma ecco pure emergere la natura appassionata del Dio biblico, che bacia il suo servo fedele mostrando così di non essere insensibile, ma di provare affetti, emozioni e partecipare con Pathos alle vicende umane.

PIRAMIDI 1

2.500 anni fa, in Egitto, fu edificata la piramide di Cheope, una delle costruzioni più grandi mai costruita dall’uomo. Erodoto la descrive 2.000 anni dopo la sua nascita ed ancora oggi gli egittologi ci parlano di decine e decine di migliaia di schiavi ed operai costretti al lavoro per decine di anni per erigere questa montagna di pietre e marmi architettonicamente posati con una geometria perfetta… in cui mettere il cadavere di un solo uomo.

Come è stato possibile convincere queste povere maestranze a massacrarsi così di fatica? Avranno forse lavorato sotto il cupo terrore delle frustate? Oppure grazie alla assicurazione di un po’ di cibo sicuro versato nelle ciotole durante le pause?…

Personalmente mi schiero con coloro i quali ritengono che, in previsione di un’opera così immane, i sacerdoti dell’epoca abbiano sapientemente dispensato, con opportuna dovizia di Pathos, fede religiosa: “Se lavorerai con dedizione e dando tutto te stesso, il Faraone, tuo Dio, ti guarderà benevolmente dall’aldilà e deporrà una parola favorevole per aiutarti nel tuo ultimo viaggio”.

Spostiamoci ora in tempi più recenti: nel 1995 Nelson Mandela era ad appena un anno dalla sua elezione a presidente del Sud Africa e a soli tre anni dalla fine ufficiale dell’apartheid; il paese usciva da un periodo difficilissimo perchè il sistema legislativo razzista era durato per 42 anni ed ancora mostrava parecchi strascichi. Uno di questi era rappresentato dal gioco del rugby, portato in Sud Africa da olandesi e tedeschi ed era considerato uno sport per bianchi. La nazionale sudafricana infatti era costituita da tutti giocatori bianchi più uno di colore ed era ancora testimonianza tangibile dell’apartheid.

MANDELA RUGBY

I giocatori ne erano consapevoli e, per questo, disorientati. Ognuno di loro teneva un basso profilo che, di conseguenza, si ripercuoteva in scarsi risultati agonistici.

Nel ’95 il Sud Africa ospitava i campionati mondiali di rugby, e Mandela si rese conto che occorreva parlare con il cuore alla squadra; lo fece indossando il cappello ufficiale degli Springbocks, e la maglia verde-oro n. 6. Questi momenti sono magistralmente rappresentati nel film “Invictus”, di Clint Eastwood.

Ho cercato di estrapolare una parte di questo discorso, semplice ma denso di Pathos. Aggiungerò solo che i sudafricani vinsero tutte le partite fino ad arrivare alla finale con New Zealand, gli all blacks, i più forti. Il Sud Africa segnò nei supplementari e divenne campione del mondo.

Per decenni Mandela aveva combattuto per tutto quello di cui i sudafricani bianchi avevano paura, per contro, la nazionale di rugby era il simbolo di tutto ciò che i sudafricani di colore odiavano di più. Dopo questa vittoria, davanti a tutto il paese e a gran parte del mondo, i due simboli si fusero tra loro dando vita ad un nuovo orgoglio nazionale, giusto e costruttivo.

 Il discorso di Mandela

“La nostra paura più profonda non è quella di essere inadeguati, la nostra paura più profonda è che noi siamo potenti al di là di ogni misura. E’ la nostra luce, non il nostro buio ciò che ci spaventa.

Ci domandiamo: chi sono io per essere brillante, straordinario, pieno di talento? In realtà dovremmo chiederci: chi sei tu, per non esserlo? Tu sei un figlio dell’universo, come me, il tuo giocare a sminuirti non serve al mondo. Non c’è nulla di illuminato nel renderti piccolo, perchè in questo modo gli altri si sentiranno insicuri intorno a te.

Noi siamo fatti per risplendere, come fanno i bambini. Siamo stati creati per testimoniare la gloria dell’universo che è in noi, non solo in alcuni di noi, ma in tutti noi.

E così, quando permettiamo alla nostra luce di risplendere, noi, inconsciamente, trasmettiamo alle altre persone la voglia di fare la stessa cosa.

Ecco perchè, quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza, automaticamente, libera gli altri.”  

G:. P:.

7 Maggio 2015 e.v.

 
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