MORIRE PER RINASCERE

Una domanda che l’uomo si pone da quando è nato: cosa c’è dopo la morte? Alla risposta si sono dedicate religioni e correnti filosofiche, e tutte (o quasi) sono ricorse al concetto di immortalità dell’anima. Fin dal primo approccio con la Massoneria, scopriamo invece un altro concetto di morte.

inserito il 18 11 2014, nella categoria Tanatologia, Tavole dei Fratelli

ISOLA MORTI

Tavola del fr:. C:.A:.C:.

Carissimi fratelli, queste brevi righe sono il frutto delle riflessioni compiute, nei miei primi due anni in Loggia, su quello che, per motivi legati alla mia esperienza personale, è da sempre l’oggetto della mia ricerca interiore: la Morte.

Nel mondo profano, la morte è una sorta di “corpo estraneo”; essa è temuta, e perciò viene continuamente sfuggita, allontanata, ignorata.

Di essa non si parla, se non per commiserare chi abbia avuto la “sfortuna” di incapparvi.

Il timore della morte nasce, probabilmente, con l’uomo stesso, ed è il timore dell’ignoto; conosciamo quello che lasciamo, ma non quello a cui andiamo incontro, ed inoltre, morendo, siamo costretti ad abbandonare le persone cui, in vita, abbiamo voluto bene, e questo non può che spaventarci.

Il mito dell’immortalità, quindi, nasce proprio dal timore della morte e dal disperato tentativo di evitarla.

Assai conosciuto è il mito di Sisifo, il quale, ricevuta la visita di Thanatos, il dio della morte in persona, lo incatenò e, momentaneamente, fece scomparire la morte dalla terra. Catturato da Zeus in persona e condotto negli inferi, tentò nuovamente, con l’astuzia, di sfuggire al proprio destino.

Dopo aver comandato alla moglie, di nascosto, di non seppellirlo (fatto a quei tempi inaccettabile!), ottenne il permesso di ritornare sulla terra per rimproverarla. Tuttavia, una volta rivisto il sole, egli non volle più ritornare nelle tenebre dell’Ade, e fu così severamente punito dagli dei; ricondotto con forza negli inferi da Mercurio, lo attendeva il famoso macigno, oggetto della sua eterna fatica.

La ricerca dell’immortalità compare anche nel poema di  Gilgamesh, mito di origine sumera.

Gilgamesh, re di Uruk e figlio del semidio Lugalbanda e della dea Rimat-Ninsun (perciò anche lui semidio), sconvolto dalla morte dell’amico Enkidu, parte alla ricerca della pianta dell’immortalità, che, affrontando numerose prove e peripezie, riuscirà anche a trovare.

Sennonché, lungo la strada del ritorno, Gilgamesh si ferma a riposare presso una fonte, e, mentre vi si tuffa per lavarsi, arriva un serpente che si divora la pianta, ringiovanendo immediatamente.

Ciò che accomuna questi due miti sono l’ineluttabilità e la caducità del destino umano.

Per quanto l’uomo si sforzi, egli non potrà mai evitare la morte, perché essa fa parte della sua stessa natura; così come si nasce, si deve anche morire.

Da questa semplice considerazione nasce la domanda che l’uomo si pone da quando è nato: cosa c’è dopo la morte?

Alla risposta si sono dedicate religioni e correnti filosofiche, e tutte (o quasi) sono ricorse al concetto di immortalità dell’anima; ciò che muore è il corpo, l’entità fisica, ma non l’anima, lo spirito, che trascende dalla materialità ed è destinato a vita eterna.

Più varie, invece, sono le risposte alla domanda: dove va l’anima dopo la morte?

 Vi sono religioni o credenze, di stampo che potremmo definire pagano, secondo cui la vita nell’aldilà non è poi così diversa da quella nell’“aldiquà”.

Il pensiero va inevitabilmente all’Ade degli antichi romani, ma anche a certe lamentazioni e riti funebri popolari praticati, ancora fino a pochi anni orsono, in alcune zone del Sud del nostro Paese, laddove si usava mettere nella bara, insieme al defunto, gli oggetti utili per la vita ultraterrena (la camicia buona, il fazzoletto) e quelli più amati in vita dal de cujus (la pipa, il pacchetto di sigarette, la bottiglia di vino).

Per altre religioni (potremmo dire la maggior parte) l’aldilà è qualcosa di etereo, immateriale.

Ma il filo conduttore di quasi tutte le concezioni dell’aldilà risiede nelle conseguenze che la condotta tenuta nel “mondo dei vivi” ha sulla condizione dell’anima nel “mondo dei morti”.

Che si tratti, ad esempio, dell’Inferno e del Paradiso cristiani o islamici, o dei supplizi e castighi inflitti dagli Dei pagani agli abitanti dell’Ade, nell’aldilà siamo sempre costretti ad espiare le nostre colpe o, al contrario, premiati per le nostre buone azioni.

Il decesso, quindi, costituisce una sorta di “rinvio a giudizio”, il momento in cui, ineluttabilmente, dobbiamo fare i conti con quello che abbiamo fatto in vita, pagarne le conseguenze o incassarne il premio.

Così concepita, la morte non produce una vera e propria cesura tra un “prima” e un “dopo”; quello che siamo stati o che abbiamo fatto ce lo portiamo dietro nell’aldilà e non ce ne possiamo separare.

Fin dal primo approccio con la Massoneria, scopriamo invece un altro concetto di morte.

Nel gabinetto di riflessione, davanti a diversi segni tangibili della caducità umana (primo fra tutti un teschio: il nostro?), ci viene infatti chiesto di vergare un testamento.

Così facendo, certifichiamo la fine di quello che siamo stati fino ad allora, ma contemporaneamente nasciamo in un nuovo “io”, iniziando, in vita, un processo di resurrezione spirituale, che dovrà condurci a mettere da parte tutti i condizionamenti ed i limiti della nostra esistenza profana, per elevarci ad un grado di conoscenza e ricerca interiore prima inimmaginabile.

Solo attraverso questo processo di conoscenza e coscienza del proprio io (paragonabile alla gnosi, descritta dai filosofi ermetici), potremo aspirare alla ricerca del trascendente, che non è il frutto di un dogma o di una verità rivelata, ma della partecipazione dell’uomo alla propria essenza divina.

La morte, quindi, costituisce un simbolo di discontinuità con il passato, l’inizio di una nuova vita; a differenza dell’aldilà, in cui ci portiamo la zavorra della nostra vita terrena, nel tempio, dopo l’iniziazione, comincia per noi una nuova esistenza, del tutto avulsa da quella profana condotta fino a qualche minuto prima.

Questo concetto di morte è quello che più si confà al termine “trapasso”, la cui etimologia significa “andare oltre”, “andare al di là”, il che fa pensare al superamento di un limite, quindi ad un nuovo inizio e non, come abitualmente crediamo, alla fine di qualcosa.

Ed infatti, con la morte del nostro Ego profano travalichiamo le nostre personali colonne d’Ercole, superando tutte le convinzioni (e convenzioni) ed i pregiudizi che ci hanno impedito di scavare profondamente dentro di noi, ricercando la nostra vera natura.

La morte, quindi, assume un significato di cambiamento, non più esteriore (la morte del corpo), ma interiore (la rinascita dell’anima).

Alla luce del valore simbolico che la morte e la rinascita assumono nell’iniziazione massonica, assume tutt’altri contorni anche la morte “terrena”, che ci riesce sicuramente più facile accettare.

Se infatti la morte non è più la fine, ma un nuovo inizio, e se la ricerca del trascendente deve fondarsi, innanzitutto, sulla coscienza e conoscenza di sé, allora solo con la morte terrena potremo raggiungere il culmine di questo processo interiore, liberandoci definitivamente da ogni vincolo con la materialità, per immergerci in un mondo di pura spiritualità.

 Ho detto.

 C:.A:.C:.

 17 Novemvre 2014


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