IL DONO

Nella cultura occidentale spesso il “Dono” si è rivelato un’esca avvelenata: il fuoco di Prometeo, il vaso di Pandora, il cavallo di Troia, la mela di Eva… L’antidoto di questi veleni è da sempre custodito dalla Massoneria. La vera generosità, infatti – quella che non si ostenta, non richiede riconoscimenti pubblici e talvolta nemmeno la riconoscenza di chi la riceve – è un’arte che si apprende proprio nelle logge. Da evitare soprattutto la carità che trasforma il ricevente in un debitore impotente.

inserito il 20 05 2014, nella categoria Etica, Filosofia, Tavole dei Fratelli

vintage card with reaching hands

Tavola del fr:. G:. P:.

Ogni volta che varchiamo le colonne del Tempio e ci apprestiamo a sederci nel posto che ci compete, seguendo un antico rituale, si creano in noi sensazioni che fluiscono puntualmente dalla profonda simbologia di cui è ricco l’ambiente e le persone che ci circondano. Quando poi la tornata ha inizio e l’eggregoro tra i fratelli è ancora più tangibile, l’animo si quieta, le tempeste del mondo profano sono lontane e si fa strada, tra l’altro, la percezione che stiamo ricevendo un dono.

Del dono, appunto, vorrei parlare in queste righe; argomento, questo, che  ha stimolato pagine e pagine di dibattiti tra i filosofi e che, d’altra parte, è molto caro alla cristianità, basti ricordare la parola di Gesù riportata dall’apostolo Paolo nel suo discorso a Mileto: “C’è più gioia nel donare che nel ricevere”, facendo così emergere la forma di ”dono” nella sua accezione più pura, in quanto assolutamente scevra da ogni forma di condizionamento, di secondi fini: si tratta infatti dell’esperienza reale di chi si avvicina al prossimo in difficoltà, sofferente per malattia, che chiede alle nostre viscere di soffrire insieme a lui, chiede il dono della nostra presenza e del nostro tempo, chiede, in sostanza, il dono di noi stessi. Ecco che l’atto del donare suscita gioia nel donatore perchè lo avvicina all’altro e, per ideale estensione, all’umanità, al cosmo e diventa un atto percepito come speranza di comunione.

In contrapposizione a questo aspetto, trovo altresì interessante quello della “reciprocità”: la sensazione descritta all’inizio di ricevere un dono, come tutte le situazioni dell’umano vivere, se ne cambiamo la prospettiva analitica, diventa reciproca e possiamo quindi affermare che, entrando nel tempio, anche noi portiamo agli altri fratelli il dono della  nostra presenza. Alla luce di questa nuova prospettiva apparirebbe ancora una volta schiudersi un idilliaco quadro generale di perfezione: questa reciprocità ci fa percepire che il regalo che abbiamo portato è stato prontamente ricambiato; ma che cos’è un dono? Secondo il dizionario lessicale è “quanto viene dato per pura liberalità, per concessione disinteressata o per abnegazione” escludendo  pertanto il significato di reciprocità.

A questo punto viene da chiedersi se oggi esiste ancora il dono disinteressato, cioè espresso nella sua forma più pura, in questo contesto di una società sempre più improntata all’individualismo e, necessariamente, a quella fitta rete di rapporti di inter-dipendenza a cui ci lega il mondo del lavoro e del commercio. E’ abbastanza frequente che i media si rivolgano a noi con messaggi “donatori”: tutti sono pronti a donarci qualcosa, o così pare: chi 5 minuti in più di traffico telefonico, se accettiamo di ascoltare una serie di messaggi pubblicitari, chi una confezione di un prodotto alimentare, se ne acquistiamo 2 simili, per non parlare poi di comunicazioni del tipo: “lavoriamo per Voi”, “Vi stiamo servendo” o “Vi diamo ascolto”, fateci caso, tutte le volte che leggiamo messaggi di questo tipo siamo in coda per qualcosa.

Inutile dire che da tutto ciò scaturisce poi una fisiologica diffidenza che ci mette in guardia dal falso dono, che ci fa intuire la maschera che cela, appunto, la reciprocità.

Anche nell’antichità Laocoonte avverte i concittadini troiani “Temo i greci, anche quando portano doni” oppure, cambiando epoca ed areale geografico, scopriamo che in alcune tribù del centro-Africa, si fa largo uso del dono che viene portato agli abitanti di un altro villaggio, magari enfatizzando il gesto con una opportuna cerimonia rituale, al fine di conquistare la fiducia dell’altro ed iniziare quindi una serie di proficui scambi di carattere decisamente commerciale.

Nella lingua francese, ad esempio, non si distingue tra “dare” e “donare”: entrambe le parole hanno come dizione il termine “donner”, eppure tutti intuiamo che una cosa donata non è una cosa data. La lingua tedesca, addirittura va oltre: il termine “gift” viene utilizzato sia per “regalo” che per “veleno”; in effetti, se pensiamo ai doni fondativi della cultura occidentale, emerge sempre una loro forte ambiguità: veramente avvelenati sono, infatti, il fuoco di Prometeo, il vaso diPandora, il cavallo di Troia, oggetto della diffidenza di Laocoonte, per non dire poi della mela di Eva e dei suoi effetti a ricaduta sul genere umano.

Si può perfino usare il dono per nascondere il male operante in lontane zone di guerra, per di più mascherato da “aiuti umanitari”, quando l’esperienza insegna che la maggior parte di queste derrate, anzichè raggiungere poveri villaggi affamati, va a rifornire invece questa o quella fazione belligerante  e quindi, di fatto, prolunga, alimentandola, la guerra in corso.

Un caso eclatante ha sollevato, nel 2000, padre Alex Zanotelli, missionario comboniano da anni impegnato ad aiutare i poveri nella baraccopoli di Nairobi. Egli rifiutò, con una indignazione che fece scalpore, i 500 milioni di lire del premio Feltrinelli, sostenendo che “i poveri non hanno bisogno di carità ma di modifiche strutturali”. La carità che aiuta i poveri del mondo, sembra dirci padre Zanotelli, “ferisce chi la riceve” perchè non potrà mai restituirla ed è finalizzata a trasformare il ricevente in un debitore impotente.

E’ dunque una situazione disperata la nostra, oggi? E’ proprio vero che il dono autentico non vuole la reciprocità? Il rifiuto di padre Zanotelli sembrerebbe confermare il contrario; ma allora, dove viene relegato il profondo valore della gratitudine?

A fronte di questi ultimi, spiazzanti interrogativi, lascio ulteriori considerazioni alle colonne, ben consapevole che i miei fratelli sapranno far emergere molta nuova luce sull’argomento. Aggiungerò soltanto, in conclusione, la citazione di un racconto di O. Henry, che aggiunge sfaccettature al significato del “dono” e riaccende l’interrogativo che ne riguarda la reciprocità.

La trama di questo racconto è piuttosto paradossale, ma straordinariamente pervasa di antichi valori che ricordano un po’ l’etica e gli scenari dei vecchi film di Frank Capra, solo il finale si differenzia da questi, lasciando nel lettore una sensazione dolce-amara.

“Il dono dei Magi” è ambientato in una New York di inizio secolo; i personaggi sono in ristrettezza economica, si chiamano Jim e Della, e sono perdutamente innamorati l’uno dell’altra. Della è ben conosciuta nelle botteghe alimentari del suo quartiere, perchè è sempre pronta a tirare sul prezzo della spesa. No, non è taccagna, è che da qualche tempo si è imposta di risparmiare ogni possibile penny per fare un bel regalo di natale a Jim.

Purtroppo però l’aumento dell’affitto, della luce e del gas hanno mandato in fumo quasi tutti i risparmi, ma all’idea del regalo, una catenella in oro per il suo orologio da tasca, non vuole rinunciare. E così decide di vendere i suoi lunghi capelli, suo orgoglio e unico patrimonio, ad un negozio di parrucche.

Poi attende, titubante, l’arrivo di Jim; teme di non piacergli più con i capelli corti. La porta si apre, lui entra e la fissa sconcertato. Sguardi silenziosi, interrogativi repressi poi, vincendo stupore e sbigottimento, lui invita lei ad aprire il pacchetto che le ha portato. All’interno la sontuosa parure di pettini e spazzole, degni di una diva, che lei sognava da sempre, ora malinconicamente inutile.

Commozione, baci, abbracci. Poi Della si riprende e porge orgogliosamente a Jim, ma già avvertendo qualche segnale premonitore, il suo, di regalo: la catenella per l’orologio.

Quell’orologio che lui ha venduto per poter acquistare la parure.

Due rinunce, per sé, due doni, per l’altro.

G:. P:.

19 Maggio 2014 e. v.

 


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