Felice Foresti

Un'incredibile parabola umana: soldato napoleonico, giudice sotto l'Austria, cospiratore carbonaro, condannato a morte, pena trasformata in 20 anni di carcere duro allo Spielberg, compagno di cella di Pellico e Maroncelli, la liberazione e l'esilio in America, il disincanto mazziniano e l'entusiasmo per Garibaldi, il ritorno in patria come Console degli Stati Uniti. Fu lui a far incontrare lo stesso Garibaldi e Cavour.

inserito il 25 06 2011, nella categoria Fatti e personaggi, Storia

A Felice Foresti è intitolato il Capitolo del Rito Scozzese Antico ed Accettato della Valle di Ferrara. I Capitoli del Rito sono, come è noto, “camere di perfezione” praticate dai fratelli che intendono intraprendere ulteriori percorsi iniziatici, al di là dei primi tre gradi (apprendista, compagno e maestro) della cosiddetta “Massoneria Azzurra”. Ed i massoni ferraresi che hanno abbracciato il Rito Scozzese non potevano ispirarsi ad una figura più indomita e rappresentativa dell’ardore e dello spirito di elevazione della Libera Muratoria.

Felice Foresti, infatti, nato nel 1879, al confine fra la provincia di Ferrara e quella di Ravenna (a San Biagio di Argenta secondo alcuni, a Conselice secondo altri, registrato all’anagrafe con il nome per esteso di Felice Eleuterio Foresti), ha conosciuto più di ogni altro gli scacchi neri e quelli bianchi che nel pavimento delle logge massoniche rappresentano appunto le vicissitudini della vita, l’altalena fra il bene ed il male, le luci e le ombre, ovvero le avversità e le prove che possono mettere a repentaglio i nostri principi, compresi nel suo caso ben quindici anni di carcere duro nelle tetre celle dello Spielberg, la fortezza austriaca, nei pressi di Brno (oggi nella Repubblica Ceca) in cui vennero rinchiusi molti dei patrioti del risorgimento italiano; lo stesso carcere delle famose “Mie Prigioni” di Silvio Pellico.

Dal baratro dello Spielberg (non si tratta di una semplice espressione metaforica, all’interno della Fortezza austriaca vi era davvero un profondissimo baratro naturale, un pozzo cavernoso, nel quale trovarono la morte diversi prigionieri) ai massimi onori diplomatici: questa fu la parabola del “cospiratore” Felice Foresti che ebbe una seconda vita negli Stati Uniti, giungendovi come povero esule nel 1836 e ripartendone come console americano in Italia, nominato direttamente dal Presidente degli Stati Uniti, Franklin Pierce, nomina confermata dal suo successore  James Buchanan che lo impose ai reticenti Savoia, poco propensi a perdonargli i trascorsi repubblicani al fianco di Mazzini. Alla sua morte, nel 1858, la sua bara fu quindi avvolta nella bandiera stelle e striscie, e la sua inumazione nel cimitero di Stagliano fu accompagnata dalle salve di un picchetto d’onore della Marina statunitense.

Foresti, nella sua movimentata esistenza, ha vissuto l’incanto ed il disincanto degli ideali napoleonici prima, di quelli mazziniani poi, ma ha sempre mantenuto ben salda la sua fede nell’ideale risorgimentale dell’indipendenza e dell’unità d’Italia.

Felice Foresti è stato dunque giovane soldato napoleonico (volontario a 16 anni), agli ordini del generale Massena, nella campagna che portò alla presa di Venezia.

Richiamato in famiglia dal padre, possidente agrario di stampo filo austriaco, abbandonò la carriera militare (anche per l’insorgere di qualche dubbio sulla politica napoleonica) e completò gli studi di giurisprudenza, senza troppo entusiasmo, nel 1805, coltivando parallelamente una grande passione per la letteratura.

Fu comunque una vicenda legale a cancellare definitivamente in lui le simpatie per la politica napoleonica: appena laureato gli fu infatti affidata la difesa d’ufficio di alcuni “banditi”, ovvero cittadini emiliani che si opponevano soprattutto alle tasse predatorie imposte dai francesi, e fu così che il giovane avvocato ferrarese fu testimone in prima persona della spietata repressione con cui gli stessi francesi rispondevano ad ogni ribellione.

Quando cadde Napoleone, e si verificò il ritorno degli Austriaci nelle terre del Polesine e del Ferrarese, Felice Foresti, che nel frattempo era divenuto giudice di pace nel Comune di Crespino in territorio rodigino, non si sconvolse più di tanto, considerando gli Austriaci una sorta di “male minore”, anche e soprattutto nei confronti della dominazione pontificia. Nella sua autobiografia, conservata nella Biblioteca Vaticana (sic), a proposito di questo passaggio si legge: “I giovani preferivano il governo austriaco a quello teocratico, mostruoso dello Stato pontificio. Io era con essi; dei due mali, l’austriaco era il minore.”

Dunque Foresti, anche sotto l’amministrazione austriaca, era e rimaneva un fervente patriota dedito alla causa dell’indipendenza italiana. Come tale, mentre proseguiva la sua carriera nella magistratura (era diventato nel frattempo Pretore), fin dal 1817 aveva attivamente aderito alla Carboniera, organizzando “vendite” (così si chiamavano le logge carbonare) a Rovigo, Fratta, Crespino ed in altri paesi vicini. Il nucleo principale era ubicato a Rovigo, nella cosiddetta “Vendita del Piccolo Adige“. Lo stesso Foresti fu il principale fautore di un summit clandestino tenutosi nel 1817 a Ferrara, nell’oratorio di San Ludovico, nel quale si gettarono le basi di azioni comuni e coordinate dei carbonari romagnoli, ferraresi e polesani.

A farlo scoprire ed arrestare nel 1819 fu una delazione , probabilmente ad opera del nipote di una nobildonna di Fratta, Elena Cecilia Monti, sua amica e protrettice dei patrioti, che non esitava ad accogliere nella propria casa.

Le manette scattarono ai polsi di Felice Foresti nella notte fra il 6-7 Gennaio, all’indomani di una serata danzante tenutasi nella Sala degli Arazzi dell’Accademia dei Concordi di Rovigo.

La vicenda suscitò un incredibile clamore (un giudice compromesso con i carbonari!), e nonostante la sua abilità oratoria nel difendersi alla fine Felice Foresti si vide condannare a morte per alto tradimento. Solo un cavillo, in estremis, e la grazia dell’Imperatore lo salvarono dal patibolo, commutando la sentenza capitale in venti anni di carcere duro allo Spielberg.

Nel penitenziario austrìaco Foresti fu compagno di prigionia di Silvio Pellico e del musicista Piero Maroncelli (lo stesso di cui viene descritta la tremenda amputazione di una gamba, per cancrena, in un famoso episodio de “Le Mie Prigioni”; lo stesso che diversi anni dopo lo aiutò materialmente e moralmente ad affrontare l’esilio americano ed a inserirsi nella nuova patria statunitense).

Le condizioni di detenzione erano davvero tremende, tanto che Felice Foresti fu spinto per ben due volte a tentare il suicidio.

L’esperienza dello Spielberg, comunque, non lo piegò affatto, anzi temprò ancora di più la sua “scorza” di irredentista.

Infatti, ottenuta la liberazione dopo 15 anni di carcere duro, lo stesso Foresti scelse l’esilio, per un brevissimo periodo in Francia, quindi da lì negli Stati Uniti.

Sbarcò come tanti altri poveri emigranti italiani ad Ellis Island, nello Stato di New York, subendo tutte le umilianti procedure di identificazione e di profilassi sanitaria.

Al di là della dogana, trovò fortunatamente ad attenderlo il vecchio compagno di prigionia, Piero Maroncelli, che lo aveva preceduto negli Stati Uniti. Fu proprio Maroncelli ad aiutarlo nel trovare lavoro e nel rifarsi una vita nella nuova patria oltreoceano. Ma Foresti non dimenticò mai la causa della sua prima patria, l’Italia, ancora divisa e sotto il giogo di potenze straniere e del Papato.

Foresti dava lezioni private di lingua e letteratura italiana. Nel 1838 una svolta fondamentale: alla morte di Lorenzo da Ponte gli venne proposta la sua cattedra al Columbia College di New York. E da qui cominciò una nuova acclamata carriera accademica, che lo vide approdare nel 1842 come insigne docente alla New York City University, preceduto dal successo di una sua pubblicazione sulla Grammatica e la Crestomazia italiana.

I successi accademici americani non lo distolsero affatto dai suoi sentimenti e dall’azione patriottica, anzi proprio a New York vi diede un formidabile impulso creando una sezione americana della Giovane Italia, e promuovendo cospicue raccolte di fondi per la causa mazziniana fra gli emigranti italiani non solo degli Stati Uniti, ma anche a Cuba, in Messico e nelle Indie Occidentali.

Tornò in Europa nel 1843, ed in questa occasione ebbe l’opportunità di incontrare Giuseppe Mazzini. La conoscenza diretta del suo “maestro ispiratore” gli permise però di intravvedere anche i limiti della sua personalità, che gli apparve decisamente dispotica. Il sanguinoso epilogo dei moti italiani del ’46 e del ’49, intempestivi e mal preparati, con tanti patrioti inutilmente mandati a morire, obbligarono Foresti ad una riflessione critica della sua adesione agli ideali mazziniani (pur continuando a raccogliere fondi per la causa).

Ma fu l’incontro con Giuseppe Garibaldi, giunto anch’egli esule a New York, a riscaldare l’entusiasmo e gli ideali risorgimentali di Felice Foresti. Fu fra l’altro lo stesso Foresti a far incontrare per la prima volta Garibaldi con Mazzini, e successivamente a propiziare il primo incontro anche fra Garibaldi e Camillo Benso di Cavour.

Egli comprese i limiti dell’azione mazziniana, e soprattutto comprese, con realismo, che soltanto il sacrificio degli ideali repubblicani, ed una più stretta connessione con la monarchia sabauda, avrebbe potuto, grazie anche all’abilità militare di Garibaldi, condurre alla liberazione della patria dal giogo straniero.

E così, dal 1849 in poi, si adoperò per sostenere Garibaldi, invitando i giovani italoamericani ad arruolarsi fra i suoi volontari.

Tutto questo mentre lo stesso Foresti abbinava alla causa patriottica, una sentita azione sociale nella comunità americana impegnandosi in campagne contro la povertà, per l’istruzione e per le cure sanitarie dei meno abbienti.

In questo periodo diede vita anche un’intensa attività editoriale, fondando a partire dal 1850 la rivista “L’Esule” , in lingua italiana.

Il suo attivismo sociale e la sua specchiata onestà intellettuale lo fecero notare ed emergere nella società americana, e nel 1853 giunge la nomina presidenziale di Foresti a console americano a Genova.

Sarà proprio in questa veste (a dir il vero non graditissima a Casa Savoia, che inizialmente di oppose alla nomina, creando un imbarazzante contenzioso con gli Usa, contenzioso risolto a favore del console italiano dal successivo presidente Buchanan che era nel frattempo succeduto a Pierce) che lo stesso Foresti ebbe modo di far incontrare per la prima volta Garibaldi e Cavour.

Il suo fu quindi un ruolo fondamentale per le sorti del Risorgimento Italiano.

Felice Eleuterio Foresti si spense il 14 Settembre 1858 a Genova. Non potè quindi vedere compiuta l’unificazione del Paese per la quale si era tanto battuto. Ma ricevette comunque i massimi onori dalla sua nuova patria, gli Stati Uniti, terra di libertà e fratellanza, che presenziarono alla cerimonia funebre con un picchetto d’onore della marina.

Sulla sua tomba, nel cimitero monumentale di Stagliano, è inciso questo epitafio:

“Eleuterio Felice Foresti da Conselice

insegna colla sola virtù del suo nome lagrimato

come fortezza d’animo,gentilezza di cuore e bontà d’ingegno

possano vincere la prova d’una immediata sventura

da che due anni di prigione in Venezia

dodici nella rocca dello Spielberg

e diciotto di onorato ed operoso esiglio in America

non valsero a scemargli fede nelle sorti della sua terra

che lo rivedeva alla perfine cittadino degli Stati Uniti

i quali affidavano il loro libero ed audace vessillo

a quelle mani che per libertà furono impedite di catene

moriva in Genova di anni LXIX

XIX settembre dell’anno MDCCCLVIII””

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(A:. Mu:.)

Nelle illustrazioni: (sopra) Il carcere-fortezza dello Spielberg; (al centro) l’arresto di Silvio Pellico e Piero Marconcelli; (sotto) la lapide commemorativa di Felice Foresti nella natìa Conselice.

 

 

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ALCUNE LETTERE DI FELICE FORESTI

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LA CRITICA MAZZINIANA in una lettera scritta a New York nel 1852 ed indirizzata al futuro Gran Maestro della massoneria italiana Adriano Lemmi.

« Nuova York, 11 aprile 1852.
« Mio carissimo Adriano,
Nel leggere la tua del 29 febbraio mi pareva di vederti personalmente a conversazione con me – e di udirti nella foga eloquente con cui usi parlare del nostro Pippo – o di cose patrie – o della malaugurata politica che attualmente regge i destini d’Europa. – Non convengo sempre ne’ tuoi giudizi – ma apprezzo vivamente i tuoi talenti – la tua concisione – ed ancor più il tuo patriottismo e l’amore esaltato che manifesti per l’esimio Mazzini.
lo non sento per esso queste amore esaltato, ma pure non mi sorpassi nell’amicizia candida e fedele che io gli professai ogni ora. Tu te lo immagini perfetto – io no. – Chi fu plasmato di creta come noi non é – né può essere perfetto. – Tu rispondi ai suoi oracoli amen: magister dixit – io dico magis amica veritas.

Tu lo reputi quel solo che potrà e dovrà condurre ad effetto la rivoluzione italiana, io al contrario lo riguardai sempre come il Batista eletto per preparare le vie – ma non come il Cristo del grande riscatto. E sai il perché – perché il Cristo dovrà essere uno di quelli Ercoli prodotti dallo scalpello di Michelangelo – e non da quello del Mino da Fiesole.
Mazzini é creazione piuttosto raffaellesca che bonarottiana. Ed ecco uno dei tuoi giudizi – coi quali non concordo di buona fede – del resto dici benissimo: Mazzini é superiore a tutti coloro che per caso o merito rifulsero nel dramma sfortunato del 1848-49. Noi dobbiamo assecondarlo – ed io lo farò sempre e sempre con tutte le potenze dell’ anima. Doveva alla nostra amicizia – ed alla mia coscienza le poche parole che ti ho espresse su Pippo. – Voglio sempre mostrarmi quel che sento di essere e non di più. E ti aggiungo che da lungo tempo ho augurato a Mazzini degli amici del mio calibro. Come sono modesto eh !

“L’altro tuo giudizio da cui dissento in parte é quello che pronunci sulle cause della stupenda funestissima elevazione al potere di quel “Domizio”, Luigi Napoleone.
Alla corte: i Francesi sono tuttavia quei medesimi che descrisse il nostro Papà Machiavelli e suo compare il grande Alfieri. Ma la genia odierna – non solo è leggera – agendo per impulso momentaneo – ma è senza intima convinzione, senza fede religiosa in un principio politico qualsiasi. Cosa sperare da un popolo che non ha fede – non convinzioni in niente – di niente – per niente?
I più pratici, i così detti Socialisti – quale fede, quale convinzione ebbero ed hanno essi ? Fede in un’organizzazione sociale che accresca il bene materiale – ma codesta fede é spuria – é egoistica – non può ispirare – né grandi concetti – né grandi sentimenti. – Dio sia lodato che i nostri italiani non hanno questa fede gallica – gli Italiani sentono, sentono l’importanza – la bellezza – la convenienza delle dottrine democratiche intemerate – il salus populi suprema lex esto.

” Ma sono stanco di fare il dottore e di sedere a scranna con la mia vista più corta d’ una spanna. Scusami tu dunque: tu dolce mio amico – che desidero di cuore alla mia parca mensa di Jersey City. oh ! se ciò si avverasse quanto mi stimerei fortunato !
lo mi credevo giunto al termine di questo pellegrinaggio terreno; e Dio sa con quanta esultanza! Ma – la morte che non é sì infida come altri credono – si accontentò di darmi uno scappellotto – e di avvertirmi che volere o non volere mi approssimo alla fine.
Già mi capisci: sono stato infermo per tre settimane: infiammazione di polmoni: la prima settimana in grave pericolo. Gli Italiani tutti a gara mi hanno dato prove d’affetto spontaneo e quindi sincero: anche quel….
” Ora sto bene” – pare.
……………………………………
“La tua lettera lunga ! oh ! questa mia sì che é lunghissima – e bisogna finirla. Il cuore detta le ultime parole. – Sii felice nella e colla tua famiglia! che colpi di cannone e presto ci facciano riabbracciare in Italia! Che tu abbia occasione di venir qui! – che i nostri cuori battano sempre in armonia ! che Pippo sia sempre nostra luce e guida. – E che tu lo abbia in mente spesso.
Ora e sempre, il tuo affezionatissimo amico
FELICE FORESTI”

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L’AMMIRAZIONE PER GARIBALDI in una lettera del 7 Agost0 1852 a Giorgio Pallavicino, in cui Foresti riporta integralmente un suo colloquio con l’eroe nizzardo.

– Garibaldi. – Tieni tu un assiduo carteggio col marchese Pallavicino ?
– Foresti. – Ci scriviamo di quando in quando.
– G. – Ma dunque scrivigli, Foresti mio, che io sono importunato e messo continuamente alle strette da molti bravi giovinotti , che pur vorrebbero che io mi mettessi alla loro tasta per incominciare un ardito movimento nazionale.
– F. – Donde vengono costoro ?
– G. – Dall’Italia centrale e dalla Sicilia; parecchi appartengono all’Emigrazione italiana qui stanziata.
F. – Ma che cosa rispondi tu alle loro inchieste insistenti?
G. – Che perseverino nel loro proposito nobile e patriottico; ma in quanto ad attuarlo, é forza che abbiano pazienza ancora un poco. Perché, a dirti il vero, io reputo che sarebbe mal fatto di mettersi in campagna, o sull’Appennino con bande, prima della seguente primavera.
F. – Ma io non comprendo come non si debba poter combattere anche d’inverno. Napoleone ha ripetutamente provato che lo si può fare.
G. – Io ho anche delle ragioni particolari per indugiare fino alla primavera: oggi non posso dirtele, ma te ne dirò una, e forse la principale. Io vedo che dobbiamo fare tesoro delle forze piemontesi regolari e volontarie: quindi la spinta al movimento, almeno indiretta, dovrebbe venirci dal Governo. Ma io non so… non capisco. Mi pare che vi sia una inerzia, un ritegno, un’indifferenza. Infine che cosa fa questo Partito Nazionale?
F. – Davvero non lo so proprio: congetturo che si adoperi per la causa italiana.
G. – Consenziente il Re?
F. – Non lo so.
G. – Ma, santo Iddio, dovremmo pur saperlo ! io offro il mio braccio, la mia vita all’Italia, e per essa alla Corona Sabauda; ma vorrei vedere preparativi, udire assicurazioni d’appoggio, maneggi, movimento, vita.
F. – Lo desidero anch’io, ma non é che un desiderio.
G. – Giorgio Pallavicino e gli altri, che più facilmente avvicinano il Re ed i Ministri, che si diano le mani attorno; che mettano insieme dei mezzi; che non mi lascino così sull’arena.
F. – Sì, te lo prometto.
(Daniele Manin e Giorgio Pallavicino, Epistolario Politico (1855-1857), per B. E. Maineri.)

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L’INCONTRO FRA GARIBALDI E CAVOUR commentato dallo stesso Felice Foresti che lo aveva propiziato:

“Il nostro Garibaldi era a Torino il 13 corrente, ed io ve lo accompagnai. Cavour l’ accolse con modi cortesi e familiari ad un tempo, gli fece sperare molto, e l’autorizzò ad infondere speranza nell’ animo altrui. Pare che ci pensi seriamente al grande fatto della redenzione politica della nostra Penisola…. Insomma Garibaldi si congedò dal Ministro come da un amico, che promette e incoraggia un’impresa appena vagheggiata.”

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