Responsabilità e speranza: strade alternative dell’etica
inserito il 10 06 2025, nella categoria Tavole dei Fratelli

Il Museo della New-York Historical Society ospita un dipinto di Dunsmore intitolato The Petition, che rappresenta l’assemblea delle logge massoniche degli Stati Uniti del dicembre 1779 in cui si discusse della possibile federazione in un’obbedienza unificata. È proprio in quel milieu liberale che nacque l’idea moderna di responsabilità. Nel dipinto sono infatti rappresentati, fra gli altri, anche gli autori del Federalist, la raccolta di saggi alla base della costituzione degli Stati Uniti in cui per la prima volta è comparso il concetto di responsabilità. In questo caso, esso indica il legame del governo federale con i cittadini che lo eleggono: libertà responsabile dei governanti, scelta libera e responsabile dei cittadini nell’elezione. Nel liberalismo il significato della responsabilità ha sempre una componente soggettiva, perché rimanda in primo luogo alla coscienza individuale che precede e accompagna l’attività del libero arbitrio.
Secondo il principio ermetico della corrispondenza simbolica (“ciò che è in alto è come ciò che è in basso”), dopo Jung sappiamo che la Storia riverbera le realtà soggettive della psiche. La libertà esteriore che a partire dal XVIII secolo fu rivendicata nella vita pubblica era infatti il frutto di un lungo ampliamento progressivo degli orizzonti interiori. E in fondo ciascuno nel suo piccolo – si parva licet componere magna – fa esperienza di una simile “ebbrezza libertaria” quando allarga il raggio del proprio compasso mentale, ampliando il cerchio intorno a sé. È un lavoro faticoso – noi siamo sempre il peggior ancien régime per noi stessi: con i dogmi personali, i pregiudizi, le aspettative. È tanto difficile esercitare con responsabilità la libertà interiore quanto mantenere aperti gli orizzonti della mente, perché ogni nuova conquista della mente rischia di trasformarsi in un nuovo principio dogmatico. L’esercizio responsabile della libertà richiede sì uno sguardo laico sulla realtà esteriore, ma anche e soprattutto su se stessi. In caso contrario, ci si ritrova a pretendere da sé e dagli altri una condotta secondo principi formali che alienano dalla realtà in metaversi etici. Tutt’altro che libertà responsabile.
La dialettica fra etica della responsabilità ed etica dei principi ha avuto un suo ampio corso nella filosofia tedesca del Novecento, almeno a partire da Max Weber. Un’etica dei principi è interessata a mantenere viva la “fiamma” di un principio, al di là dei risultati pratici; quando l’esito non è buono, l’etica dei principi non dà la colpa a chi ha agito, bensì troverà alibi ideologici. Un’etica della responsabilità informa invece l’azione calandola nell’immanenza dell’umanità e del mondo, prendendone laicamente in carico i difetti.
Nella filosofia tedesca, questi modelli hanno avuto in Ernst Bloch l’ideatore di un’etica della speranza, e in Hans Jonas il pensatore dell’etica della responsabilità. Il “principio speranza” di Bloch si basa sull’utopia come costruzione ideologica indeterminata che indica la strada per l’attuazione di un obiettivo di massima. La speranza è pertanto la dimensione propria di un’attività pratica che si proietta virtualmente fuori dall’immanenza, seguendo una lontana voce trascendente, religiosa o secolare che sia. Il messianismo della speranza di Bloch era uno dei prodotti contemporanei del positivismo illuminista del XVIII secolo, entusiasta delle libertà pubbliche e dello sviluppo della tecnica. Ma cosa resta oggi di quell’ottimismo illuminista e liberale? L’umanità contemporanea ha infatti sperimentato il fallimento delle utopie e ha preso coscienza dei risvolti sinistri della tecnica, quando si trasforma in un Prometeo scatenato.
Non riusciamo più ad avere “la testa altrove”, siamo qui e ora. In questa immanenza così laica si inserisce l’etica della responsabilità di Jonas, che si basa sull’abbandono delle grandi proiezioni di principio per una riflessione hic et nunc sulle conseguenze, a corto medio e largo raggio, secondo il principio del rispetto. Jonas consiglia di rimanere nella completa immanenza affinché l’essere umano agisca in maniera responsabile per preservare se stesso e l’ambiente, soprattutto dai possibili effetti devastanti della tecnica. Ciò che mi sembra più attuale nell’etica di Jonas è che si pone al di là della morale, al di là del bene e del male. L’etica della responsabilità dovrà fondarsi per Jonas non più su nuove principi formali del bene e del male, bensì sull’ontologia, vale a dire sulla concezione dell’essere. L’etica dovrà radicarsi su cosa sia l’essere umano, quali siano le sue potenzialità essenziali e cosa lo lega ai prodotti della tecnica e all’ambiente naturale.
Nel saggio su Machiavelli, Fichte scrive che un uomo responsabile non dà per scontata la perfezione degli esseri umani, né attribuisce ad altri le conseguenze del proprio agire, almeno fin dove poteva prevederle.
Uno dei grandi paradossi della nostra epoca è che, nonostante viviamo in tempi di grandi libertà formalizzate giuridicamente, c’è una carenza di responsabilità. Di tutti gli innumerevoli fattori di stress che fanno naturalmente parte dell’esistenza, accusiamo sempre qualcun altro e mai, come invece dovremmo, noi stessi. Questo avviene sia al livello delle singole persone che a quello delle masse. È come se pretendessimo una libertà automatica che esclude il grande fattore umano – quello celebrato da sempre nella lettura mondiale fin dal libro di Giobbe: il fallimento e la sventura temporanea, le asprezze e gli sforzi per risalire dal sottosuolo.
Questo dipende forse dal fatto che noi, occidentali del XXI secolo, viviamo in sistemi complessi che ci illudono di poter credere che il mondo funzioni secondo schemi predeterminati e che tutto sia prevedibile. Siamo abituati a provvedimenti e dispositivi calati dall’alto che ci rassicurano circa la possibilità di prevedere tutto o quasi. Quando un evento imprevisto irrompe nelle nostre esistenze, gli schemi predeterminati riescono finanche a convincerci ex post che, in fondo, era prevedibile. I sistemi complessi infatti, e in genere le nostre esistenze non lo sono meno della politica e della finanza, possono risultare fortemente indeboliti se vengono privati da un salutare allenamento allo stress. Possono andare in panne. Sono come un bambino cresciuto da genitori iperprotettivi. Nello specifico, il grande deficit indotto è il mancato sviluppo del principio di responsabilità, che solo permette di affermarsi nel mare magnum disordinato del reale esercitando il proprio libero arbitrio hic et nunc.
Le nostre esistenze sono spesso labirintiche, ma la nostra mente tende sempre a volerle srotolare in disegni lineari e a intravvedere ex post disegni ordinati. In fondo, non bisogna andare troppo lontano per trovare l’etica dei principi criticata da Max Weber, o l’etica della speranza di Bloch. Quando nutriamo aspettative (soprattutto negli altri), quando speriamo di realizzare disegni e progetti – anche nelle versioni più banali della vita quotidiana, quando critichiamo la realtà perché non si conforma ai nostri principi, agiamo secondo quei modelli etici. E non sempre è un errore, il male consiste più che altro nel non mettere in conto il carattere dionisiaco della realtà, che spariglia le carte. L’ordine più solido è infatti quello della coscienza responsabile, che concentra la propria forza psichica e contempla gli eventi casuali e i conflitti imprevisti sul cammino. Simbolicamente, pensiamo a quanto siano fragili i sistemi utopici, ossessionati dal controllo sulla realtà per realizzare principi, e quanto invece siano resilienti i sistemi aperti, che naturalmente contemplano menti responsabili che navigano nel disordine e nel conflitto.
Un principio di responsabilità che abbia un fondamento metafisico, cioè nell’essere piuttosto che nella morale, esige delle coscienze che prendano gusto nella volatilità, negli imprevisti, nei conflitti positivi, nel disordine, nell’incertezza, nei fattori di stress. Che crescono e si ampliano attraverso gli shock inevitabili. Amano la volatilità perché sanno che è nella natura dell’essere e quindi sanno che il loro destino è la gestione del rischio, cioè dominare e ricomporre in una visione apollinea l’elemento oscuro, incomprensibile, assurdo, imprevedibile del prossimo e della realtà.
Nel Labirinto del fauno di Guillermo del Toro, la suprema prova iniziatica richiesta alla protagonista è il sacrificio della sua vita per salvare quella del fratellino neonato. Responsabilità è infatti anche la coscienza che permette l’abnegazione e il sacrificio di sé per gli altri. Nessuno può negare che il sacrificio di sé per il prossimo (non per forza fino alla morte, ma anche nei piccoli casi della vita familiare) non sia una dimostrazione di grande responsabilità.
Ma per sacrificare qualcosa, bisogna averla. «Io ho quel che ho donato», secondo il motto scolpito all’ingresso del Vittoriale degli Italiani. Bisogna aver maturato una coscienza di ciò che si è per poter agire responsabilmente. Il principio di responsabilità è, infatti, un principio esoterico – non nel significato dell’occultismo, bensì dell’esoterismo della psiche soggettiva. Esso richiede una discesa nella propria interiorità profonda per osservare ciò che vi accade e poi, dopo aver compreso, cercare di intervenirvi. È una discesa in interiora terrae lungo la quale ci si spoglia del vecchio e ci si riduce alla conoscenza fondamentale dell’essere – quella stessa che in una tavola d’istruzione letta in una recente tornata è stata individuata simbolicamente nello scheletro raffigurato nel gabinetto di riflessione. Bisogna in primo luogo essere responsabili di sé e dominare l’oscuro in interiora sui per poter essere responsabili della propria posizione sociale e degli altri, quindi per dominare l’oscuro nella realtà esteriore.
Un archetipo del principio di responsabilità è il primo arcano maggiore dei tarocchi, il Bagatto, che rappresenta un giovane con un’asta in mano davanti a un tavolo su cui sono disposti gli elementi della sua attività. La realtà e gli strumenti sono lì, presenti: a noi è dato di interagirvi. Il Bagatto come archetipo del principio di responsabilità è infatti un mago, intendendo la magia nel senso generalissimo di attività che si basa sulla conoscenza profonda di sé, e sul proprio equilibrio interiore, al fine di disporre delle proprie facoltà mentali per attuare la volontà nel reale. E in questo l’intuizione gioca un ruolo decisivo, perché permette di integrare la volatilità e l’imprevedibilità. In conclusione, per simboleggiare la posizione del principio di responsabilità nel mondo, vorrei richiamare i tarocchi di Oswald Wirth, in cui il Bagatto ha un cappello a falda larga che descrive un nodo d’amore: simbolo dell’infinito imprevedibile che ci sovrasta, ci circonda e ci abita.
Ho detto.
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