LA “VIA” DEL SILENZIO

Virtute non verbis

inserito il 10 02 2015, nella categoria Apprendista, Esoterismo, Iniziazione, Tavole dei Fratelli

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Tavola del fr:. F:. G:. (R:. L:. Sol Invictus).

Affronto un argomento, un aspetto comportamentale del vivere, che m’è sempre stato a cuore.
Quando ero giovane, nello scorso millennio, attribuivo i miei silenzi all’eccessiva timidezza. Pensavo che il mio tacere fosse dovuto alla voce sgraziata, al mio modo di parlare, in fretta, e quindi spesso incomprensibile, alla mia ignoranza su tante cose.

Poi, col trascorrere degli anni, mi accorsi che sì, era vero questo, ero debole e forse stupido, e ignorante, ma che c’era pure qualcosa di più profondo, in quella maniera di comportarmi e di tacere. Forse si entrava nel campo del rispetto per gli altri, dell’insicurezza, dei continui dubbi.

Accantonati di dubbi di allora, affronto questo argomento oggi, quando sono vecchio, e lo faccio per mettere in guardia i giovani, ma soprattutto per mettere in guardia, come sempre, me stesso.

Prendiamola alla lontana. Cominciamo dal grande Pitagora (570-490 a.C.).

La sua scuola osservava alcune ferree regole. Togliere, sopprimere le parole, diminuire, depotenziare. In altri termini intervenire con il silenzio per ridurre le esigenze e i desideri.

Con Pitagora quindi si fa strada, cinquecento anno prima di Cristo, il concetto di povertà salvifica, di ferrea disciplina sulla voluttà dei sensi, di virtuosa astensione da certi piaceri, di resistenza ai disagi ed ai dolori della vita.

Fra queste privazioni, il neoplatonico Giamblico (250-330 a.C.), alludendo a Pitagora, parla proprio degli elementi penitenziali. Fra questi ricorda la celebre prescrizione del silenzio, e lo fa con questi precisi termini: il freno della bocca e il silenzio assoluto portano al dominio della lingua ed alla vigorosa ed instancabile ricerca verso la conoscenza delle cose più difficili.

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Lo stesso Aulio Gellio (II secolo d.C.), parlando anch’egli di Pitagora, di quella scuola e dei suoi successori, afferma quanto segue (faccio qui notare, per inciso, che era, e sarebbe ancora, se applicata, una magnifica regola per la nostra Fratellanza):
Si dice che l’ordine ed il merito di Pitagora e della sua scuola, nell’ammettere e giudicare i discepoli, fossero i seguenti: fin da principio i giovani che chiedevano di essere istruiti, erano osservati nella loro fisionomia. Questa parola greca significa: cercare di conoscere la natura ed il carattere degli uomini dall’espressione del volto e del tratto, dalla forma del corpo e da tutto l’esteriore della persona. Quando un giovane era stato così esaminato, e ritenuto idoneo, veniva accolto nella scuola. Per un certo periodo di tempo doveva tacere. Tale periodo non era uguale per tutti, ma diverso per l’uno o per l’altro, secondo il giudizio sulle capacità di apprendere di ciascuno. Quegli che taceva, ascoltava ciò che gli altri dicevano, ma non poteva rivolgere domande su ciò che non aveva compreso, né gli era concesso di prendere appunti su ciò che udiva. Il silenzio non durava mai meno di due anni. Coloro che subivano la prova del tacere ed ascoltare, erano detti uditori. Quando avevano appreso la scienza più difficile di ogni altra, del tacere e dell’ascoltare, ed il loro spirito cominciava a formarsi con il silenzio, chiamato continenza di parole, solo allora potevano parlare e chiedere, prender nota di ciò che udivano, ed esprimere le proprie opinioni”.

Lo stesso Socrate (469-399 a.C.) aveva pensato la sua scuola come un luogo separato, diverso, un circolo di individui che non seguivano le comuni convenzioni sociali, con particolare attenzione all’uso della parola e del silenzio. Aristofane racconta che, in presenza del maestro, un ragazzo non lo si doveva nemmeno sentire bisbigliare.

Erano regole in stile laconico, cioè spartano. A Sparta infatti era imposto il più rigoroso controllo del corpo, col dominio dei suoi stimoli. Socrate vi si ispirò, sottoponendo gli adepti a strette regole di continenza, e al silenzio, connesso con il clima di rarefatta sacralità in cui si osservavano le regole del maestro.

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Apollonio di Tiana (I secolo d.C.) si era dedicato, fra l’altro, alla continenza delle parole. Gli fu chiesto perché non volesse scrivere, pur essendo un valente pensatore. Semplicemente rispose: “Perché non ho ancora taciuto”.
Da allora decise di dedicarsi al silenzio, con l’astensione assoluta dalla parola. Nonostante questo, narrano che la sua compagnia fosse molto piacevole. Dopo cinque anni di silenzio, quando riprese a parlare, confessò che quello passato fosse stato un duro periodo della sua vita. Avendo molte cose da dire, non parlava. Ascoltando cose che lo muovevano all’ira, faceva come se non le sentisse. Quando gli venivano mosse critiche, rinunciava a confutarle dicendo a se stesso: “Sopportate, cuore e lingua miei”.

Se vogliamo entrare in un campo più profondo e misterioso, Dionigi l’Areopagita (sec. V d.C.) sperimentò una nuova tecnica sapienziale basata sull’idea dell’elevazione e della comunicazione silenziosa dell’anima individuale con dio.

Si può quindi affermare che il silenzio non è mai puro, vuoto. E’ mia profonda convinzione che sia, a certi livelli, un irrinunciabile modo per comunicare.

Apro una parentesi. Notate quanto sia più nobile, imperscrutabile, arcano, esoterico, il silenzio. Paragonate un uomo garrulo e petulante ad un uomo che ascolta e non parla, e noterete la differenza.

Questo tema mi sta a cuore soprattutto da quando sono entrato in Massoneria, 37 anni fa, ma penso che dovrebbe pure stare a cuore a tutti coloro che vivono l’iniziazione come fatto pregnante, come esperienza collettiva che affonda le sue radici nella notte dei tempi, quando i primi saggi, uscendo dalle nebbie della coscienza, compresero che la vita è un’esperienza nobile, unica, irripetibile.

Il silenzio quindi come muta ammirazione del mondo che ci circonda, come stupore per questo magico avvenimento che ci trova coinvolti, volenti o nolenti. Il silenzio come momento di sospensione dalle attività di produzione del benessere, al giorno d’oggi ormai spinte in un pericoloso vicolo cieco, e che ci dovrebbe indurre a riflettere profondamente.

Siamo una comunione di iniziati. Facciamo parte, confido con intima convinzione, di una confraternita che non ricerca il successo personale, che non persegue il guadagno, che non rincorre la fama. Al contrario i nostri ordinamenti ci spingono verso la ricerca della Luce, che può essere sinonimo di bellezza del Creato, della verità pura, del nostro miglioramento come uomini, della difficile comprensione dei misteri della vita e della morte.

Ed il simbolo, non la parola che ci accumuna a tutti i Fratelli del mondo. Se frequento una Loggia di Fratelli che parlano una lingua che non conosco, riesco però a riconoscermi come fratello con loro attraverso i simboli ed il tempio in cui lavoriamo.

Vorrei qui precisare che quando cito i grandi filosofi ed i saggi del passato, non lo faccio per ostentare una cultura, che in realtà non penso di possedere, me per due motivi ben precisi.

Primo, per mostrare come questa ricerca sul silenzio non sia una mia ubbia, una mania che mi ha preso, bensì una necessità che assale l’uomo fin dai tempi più remoti. E l’uomo può essere cambiato esteriormente, con la tecnologia e l’arricchimento materiale, ma intimamente è sempre lo stesso, sotto il sole degli Incas, degli Antichi Egizi, della Gracia classica, della Roma imperiale, del Medioevo, del Rinascimento…

Secondo motivo, cito parole e pensieri di uomini infinitamente più saggi di me, e più di me capaci di trovare le scarne e giuste parole per significare i concetti che, io nella mia pochezza, sento e vivo. Lo faccio, lo ripeto, non per ostentazione di cultura, ma per necessità pratica.

L’uso parsimonioso della parola era considerato prerogativa regale. Il silenzio indicava l’assoluto dominio di sé e delle proprie passioni.

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Senofonte (430.355 a.C.) considera il silenzio un evidente accrescimento di autorevolezza nell’insegnamento.
Trattieniti dal parlare di cose di cui non sei sicuro. Ottieni, se mai, l’effetto voluto spingendo altri a parlare in tuo nome. Le tue esortazioni giova che conservino tutta la loro forza persuasiva, per i momenti di estrema necessità”,

Lentamente, nel corso dei secoli, ci si accorse, al contrario di quanto accade oggidì, in cui tutti parlano parlano sempre di tutto, senza neppure essere richiesti, che la saggezza andava nella direzione di una progressiva accentuazione di separatezza e di silenzio, tipica dei saggi e dei re.

Demetrio Falareo (350-285 a.C.), ateniese, affermava: “E’ necessario che colui che intenda comandare gli altr, possa anche saper comandare le proprie passioni”.

Nell’antica Roma c’era un dio che rappresentava il silenzio, il dio pietra Terminus. Era il garante della stabilità territoriale.

Corippo narra che l’imperatore Giustino (regnante dal 565 al 578 d.C.) salì sul trono e vi sedette facendo il segno della croce. Poi, dopo un lungo silenzio, prese a parlare.

Aristotele (384-322 a.C.) prima, poi Cicerone e Quintiliano, stabiliscono un nesso inscindibile fra voce, corpo e silenzio.
Un magistrato, o un re, erano consapevoli che le parole, una volta pronunciate, sono irrevocabili. Diventano comando o leggi che non possono tornare indietro. Ed un magistrato, od un re, non possono contraddirsi, non possono rimangiarsi le decisioni, e devono il più possibile dimostrarsi infallibili..

Molti filosofi e pensatori di allora, Plinio il Vecchio, Mamertino, Stazio, Claudiano, lo stesso Seneca, hanno messo in rilievo il fatto che l’uomo rispecchia il cosmo. L’anima rappresenta il cielo, ed il corpo la terra, e il cielo è etereo, imperturbabile, puro. Quindi per assomigliare al cielo è necessario praticare la quiete, la serenità, il silenzio.

Plutarco, seguace pitagorico e sacerdote di Delfi (50-120 d.C.), nel suo “Trattato dell’Arte di Ascoltare”, afferma che il silenzio è una delle condizioni necessarie per la purificazione spirituale e quindi condizione indispensabile per l’apprendimento della verità.

Ora vorrei narrare un episodio accaduto nell’antica Atene. Un ricco ateniese aveva invitato a pranzo gli emissari di un re ed aveva fatto di tutto per farsi onori, per farli incontrare con i filosofi della città. Tutti prendevano parte alla conversazione e pagavano in tal modo il loro tributo. Solo Zenone di Cizio (330-263 a.C.) se ne stava in silenzio. Gli stranieri, allora, dopo averlo trattato con cortesia ed aver brindato alla sua salute, gli chiesero: “E di te Zanone, che cosa dobbiamo riferire al nostro sovrano?”. Zanone rispose: “Nient’altro che questo: ad Atene c’è un vecchio che durante un convitto è capace di stare in silenzio!”.
Voleva forse far comprendere che il silenzio era qualcosa di profondo, di sobrio, di mistico, e il chiacchierare impunemente ha molte, troppe, voci.

Licurgo fa un’affermazione molto bella, e naturalmente sintetica: “Chi usa poche parole ha bisogno di poche leggi”.

Per Plutarco coloro che hanno avuto un’educazione nobile e regale, imparano prima a tacere poi a parlare.

Dello stesso tenore è quanto afferma ancora lo stesso Plutarco, nel suo “De Garrulitate”, a proposito di Zenone. “Affinché il suo corpo sottoposto a tortura non si lasciasse sfuggire, contro la sua volontà, qualche segreto, si mozzò la lingua coi denti e la sputò in faccia al tiranno”.

Sempre Plutarco afferma che “l’esagerazione nel parlare rende rende vuoto e insulso il parlare medesimo”.
Ancora: “Chi parla si pone dunque in una posizione di rischio perché dissipa energie e disperde parte del nascosto tesoro che porta dentro di sé. Con il parlare si priva di qualcosa, di un elemento fisico e materiale che fino ad allora gli era appartenuto, lo espone e lo lancia lontano senza possibilità di recupero”.

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Secondo gli stoici il respiro stesso è un corpo sottile e luminoso della stessa natura del Fuoco che pervade l’universo. Si irradia dal cuore e, attraverso la gola, si effonde nell’aria. E chi usa troppo la voce lo fa a causa di un difetto fisico. In altre parole sono una malformazione ed una sbagliata canalizzazione del neuma che condizionano il comportamento dei parlatori incalliti.

Immersi nel silenzio, santi, asceti, visionari, grandi filosofi, veri iniziati, hanno percorso lunghi cammini ed hanno imparato ad ascoltare ciò che non può essere detto a parole, l’ineffabile.

Il silenzio è una dimensione, la dimensione in cui si manifestano la saggezza e la prudenza.

Evidenzia, fra le altre cose, la volontà di ascoltare, e quindi un grande rispetto per il pensiero degli altri, contrariamente a quanto accade a coloro che parlano per mettere in mostra la loro saggezza, e che spesso non è che vuoto narcisismo.

Il parlare poco, affermano i veri saggi, è indice di molte virtù. Al giorno d’oggi, purtroppo, è considerato un difetto, una lacuna.

La musica stessa, per far cenno ad un arte che mi sta particolarmente a cuore e che sa esprimere l’inesprimibile, nasce, si regge e si sviluppa sulle fondamenta delle pause e del silenzio.

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Recentemente ho sentito questa bellissima storia, e la vorrei narrare come la ricordo:

In una città d’Oriente, in India, viveva un saggio, amato e rispettato. Un giorno gli fu detto che lontano, sui monti del Tibet, in un monastero, viveva un monaco da tutti considerato il più saggio di tutti i saggi. Mosso da curiosità, e un poco da invidia, il nostro saggio si mise in viaggio per conoscerlo ed imparare da lui.
Camminò per mesi e mesi, fino a che non giunse al lontano monastero, finalmente al cospetto di quell’uomo famoso.
Mi hanno detto che tu sei il più saggio”, disse.
Il saggio del Tibet non rispose, ma gli fece segno di sedere a terra, di fronte a lui.
Per tre lunghi giorni rimasero così, in silenzio, finchè la sera del terzo giorno il nuovo arrivato non seppe più tacere: “Mi hanno detto che tu sei un grande saggio, ma perché per tre giorni non hai aperto bocca e non hai saputo insegnarmi nulla?”.
Il grande saggio lo guardò a lungo, poi così rispose:
Se dopo tre giorni il mio silenzio non ti ha insegnato nulla, come puoi pretendere che ti dicano qualcosa le mie parole?”.

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Ora vorrei citare, testualmente, il greco Proclo (410-485), filosofo neoplatonico:
Nulla di conoscibile è conosciuto grazie ad una conoscenza di grado inferiore. Quindi neppure ciò che sta al di sopra dell’intelletto può essere conosciuto dall’intelletto stesso. Perciò risulta chiaro che pensare oltre l’intelligibile è non pensare. Se colui che manifesta un essere indicibile è detto logos, necessariamente prima del logos deve esserci il silenzio, che fa sussistere il logos stesso”.

Un breve cenno, infine, tratto da “Umano, troppo umano” di Friedrich Nietzche:
La mia filosofia mi consiglia di tacere e non far più domande: tanto più che, in certi casi, come fa intendere il proverbio, si rimane filosofi solo tacendo”.

Ed ora alcune massime, per chiudere:

IL SILENZIO INDICA UNA VIA

IL SILENZIO E’ IL SEGNO DELLA RIVELAZIONE

IL SILENZIO PUO’ DIVENIRE UNA CERIMONIA, UN RITO

IL SILENZIO E’ IL LINGUAGGIO DELLO SPIRITO

CHI SA CONSERVARE IL SILENZIO DENTRO DI SE’,
E’ VICINO ALLA CONOSCENZA

PRIMA DELLA NASCITA C’ERA IL SILENZIO.
DOPO LA VITA, NELLA MORTE, CI SARA’ ANCORA IL SILENZIO

PRIMA DELLA CREAZIONE, PRIMA DEL MONDO, C’ERA IL SILENZIO.
AL TERMINE DEL TEMPO E DEL CREATO, TORNERA’ IL SILENZIO
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Ho detto
F:. G:. (R:. L:. Sol Invictus)

2 Febbraio 2015 e:. v:.

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1 Comment for this entry

  • Giorgio D.L.

    Grazie al Fratello F.G. che ci sottopone questa utile, quanto necessaria, raccolta particolareggiata di pensieri sull’importanza del Silenzio. Immergerci nelle “perle” degli Antichi sia prassi per chi non intende l’importanza del V.I.T.R.I.O.L. e sprone per chi dimentica che la raccolta esistenziale deve essere una costante affinché la Libertà dell’Uomo in cerca della Verità resti sempre preservata.

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