LA MORTE NEGATA

Come negli ultimi due secoli il pensiero della Morte è stato completamente esiliato dall’esistenza profana. Gli antichi insomma si preparavano per tutta la vita ad attendere ed affrontare la morte. E quando arrivava sapevano bene cosa fare. Nel nostro secolo invece la morte ha i minuti contati. Le vengono riservati solo gli ultimissimi istanti della nostra vita e di quella dei nostri cari. Deve fare in fretta. E possibilmente coglierci di sorpresa, quasi senza farsene accorgere…

inserito il 13 05 2011, nella categoria Esoterismo, Filosofia, Società, Storia, Tanatologia, Tavole dei Fratelli

Tavola del fr:. A:. Mu:.

E’ il risultato finale che da un senso a tutta la partita; è il risultato finale che rende finalmente chiaro l’intero  filo logico dei “fatti” che si sono susseguiti per tutta la durata dell’incontro: di ogni azione, di ogni movimento e di ogni pensiero che li ha generati.

E’ solo il definitivo bilancio di quel “risultato finale” che ha l’incredibile capacità di attribuire un po’ di logica perfino all’infinito blaterare delle cronache sportive ed alle cosiddette “chiacchiere da bar”. Forse solo la letteratura, quella vera, potrebbe sottrarsi alla logica del “risultato finale”, per trovare un senso ed un’emozione anche in una partita senza fine, come nei romanzi di Osvaldo Soriano, o perfino nei versi di Eugenio Montale che meditava un campionato senza reti, sognando “il giorno in cui  nessuno farà più gol in tutto il mondo”. Ma quello forse non sarebbe più vero calcio, non sarebbe più vera vita. Per essere la concreta metafora della nostra vita, come sosteneva Jean Paul Sartre, la partita di calcio ha bisogno di un epilogo. Di un fischio finale.

Così la nostra stessa vita, la nostra “partita” terrena, acquisterà un senso definitivo soltanto attraverso il bilancio finale della Morte. Solo lei chiarirà l’essenza logica di tutti i fatti, anche di quelli apparentemente più banali, che si sono susseguiti nella nostra vita. Solo lei, la Morte, potrà dirci finalmente in quale direzione erano rivolti i nostri passi, quando e come abbiamo creato il nostro destino, e perché ad esso non potevano e non potremo sottrarci.

Proprio come la nottola di Minerva, il pensiero può vedere chiaramente solo al tramonto: è l’acuta osservazione di Hegel, che ci conferma come la piena comprensione di una vicenda umana (di un periodo storico come di una singola esistenza) può essere raggiunta soltanto quando essa si è conclusa.

Dunque, se la Morte, è così importante, come lo è, per la nostra stessa Vita, perché non guardarla in faccia, perché non “servircene” come uno dei punti cardinali per orientare meglio la nostra vita quotidiana. Gli antichi lo facevano, lo sapevano fare.

Per millenni, fin dal tempo “non scritto”, la Morte è stata contemplata e ritualizzata come uno dei “fatti” essenziali della condizione umana, nella sua dimensione quotidiana.

Media vita, in morte sumus” ricordava Notter nel VII Secolo, “In vita, siamo dei morti”.

Soltanto negli ultimi due secoli, e specialmente nel nostro, la Morte è stata invece totalmente esiliata dai nostri giorni terreni, per riservarle solo l’estremo lembo della nostra esistenza, soltanto le nostre ultime ore, quasi di nascosto, lontano da occhi indiscreti, dietro il pietoso separè di un letto d’ospedale, sempre più spesso in una essicante solitudine.

La Morte, prima d’ora, invece, è stata per secoli un evento assolutamente corale. Tutta la famiglia, compresi i più giovani, anche i bambini, si riuniva attorno al morente.

LA MORTE PUBBLICA 

Per secoli, per millenni, è esistita una familiarità pubblica con la morte, che solo nelle ultime generazioni è andata quasi totalmente perduta, se è vero (come ricorda Philippe Aries) che ancora nella prima metà dell’Ottocento “quando si portava il “viatico” (ovvero i conforti religiosi) ad un malato, chiunque pur essendo sconosciuto alla famiglia, poteva entrare nella casa e nella camera del moribondo. Allora si moriva quasi sempre in pubblico.”.

Mme de Montespan, racconta Saint-Simon, aveva meno paura di morire che di morire sola. Quando, il 27 Maggio 1707, si accorse di esser vicina a morire, non ebbe più paura; fece ciò che doveva fare: chiamò attorno a sé tutti i domestici, “fino al più umile”, chiede loro perdono, confessò le sue colpe, e presiedette, come era d’uso, la cerimonia della sua morte.

Fin dal Medio Evo la morte prevedeva infatti un preciso cerimoniale, una sorta di ritualizzazione che contemplava sia la semplicità della cerchia familiare sia la necessità di una manifestazione pubblica del trapasso.

Il morente non aveva un ruolo passivo, era anzi chiamato a predisporsi attivamente al suo ultimo respiro. Doveva cioè cercare di mantenere una posizione che permettesse allo sguardo di volgersi verso Oriente, verso Gerusalemme, per orientare e facilitare così il cammino dell’Anima verso la sua meta eterna. Lo stesso morente doveva quindi interpretare una precisa serie di “estreme incombenze” terrene: il ricordo delle principali azioni compiute in vita, la richiesta del perdono, la raccomandazione a Dio dei congiunti sopravvissuti, le disposizioni per gli eredi, la preghiera della penitenza, ed infine ricevere l’assoluzione.

A questo rituale sottostavano non solo le classi popolari, ma anche nobili e cavalieri. Se ne ha conferma nella Chanson de Roland, nei romanzi della Tavola Rotonda, nei poemi di Tristano. Nel ciclo di Re Artù compare semmai un elemento aggiuntivo del rito della morte: la scelta della sepoltura. Ad Orlando (che “attende” cristianamente al rito della sua morte) non interessa dove sarà sepolto; a Gauvain, ucciso da Lancilotto, invece sì: perdona Lancillotto e lo prega di venire sulla sua tomba dopo il suo trapasso, e chiede al re che questa tomba sia posta nella chiesa di St Etienne de Camalaoth “vicino ai miei fratelli”.

Gli antichi insomma si preparavano per tutta la vita ad attendere ed affrontare la morte. E quando arrivava sapevano bene cosa fare. Nel nostro secolo invece la morte ha i minuti contati. Le vengono riservati solo gli ultimissimi istanti della nostra vita e di quella dei nostri cari. Deve fare in fretta. E possibilmente coglierci di sorpresa, quasi senza farsene accorgere…

Deve fare in fretta: non solo e non tanto per abbreviare le sofferenze del moribondo, ma soprattutto per non usurpare troppo tempo ai vivi.

Non ci troviamo di fronte ad negazione “alta” (filosofica, esistenziale) della Morte, come ad esempio quella di Epicuro che invitava a non darsene troppa cura perché non l’avremmo mai incontrata (“Finchè siamo vivi, lei non c’è: quando arriverà, noi non ci saremo più”).

Nel caso di questa nostra epoca, ossessionata da un ritmo di vita tipo “fast food” od “usa-e-getta”, sembra piuttosto di trovarsi di fronte ad una misera FUGA dalla morte. Una fuga certamente stupida e vana.

Ma quando è cominciata questa fuga? Alcune risposte ci vengono fornite ancora da Philippe Aries, uno dei massimi studiosi del significato della morte nel mondo occidentale, dei costumi e dei riti funerari.

Verso l’”ospedalizzazione” della Morte si è cominciato a procedere  fin dalla fine del Settecento, quando i medici igienisti che partecipavano alle indagini di Vicq d’Azir cominciarono a lamentarsi della folla che invadeva la camera dei moribondi.

Ma la vera “rottura” con la “morte domestica” del passato, la si è avuta dalla seconda metà del XIX secolo in poi, quando i medici cominciarono ad interrogarsi sulla necessità o meno di rivelare ad un malato la gravità del suo male, e se non fosse meglio evitargli le emozioni troppo forti del dolore dei familiari che lo attorniavano.

La morte cominciò allora a diventare invisibile; e già agli inizi del XX  secolo, a cominciare dai paesi anglosassoni, la morte si trovò ad essere sempre più spesso nascosta negli ospedali.

I nostri sensi a quel punto non erano più in grado di sopportare immagini ed odori che, appena poche generazioni prima, facevano parte della vita quotidiana, come del resto la sofferenza e la malattia.

L’ospedale era diventato l’ultima, indecente, abitazione della “morte solitaria”.

Dapprima – rileva ancora Aries – c’è stato un processo di estraniazione dalla morte, di tipo sociale. Poi, in modo ancor più accentuato in questo ultimo secolo, si arrivati anche ad un progressivo oblio individuale del senso stesso della morte.

Oggi fra la Vita e la Morte è stato issato un altissimo muro. E non solo in senso figurato…

 

IL MURO DELLA MORTE

Lo sottolinea ancora Philippe Aries, osservando che nella nostra società “il morto viene separato dal vivo in misura ossessiva da diverse barriere”. Ne cita almeno tre: la bara, la parete del loculo (o della fossa), ed il muro di cinta del cimitero, che deve essere il più impenetrabile possibile per nascondere alla vista di tutti ciò che contiene.

Proprio nella nostra città, Ferrara, si è avuta qualche anno fa una singolare conferma di questa osservazione.

Gli abitanti di una nuova zona residenziale sorta proprio a ridosso di un cimitero periferico, erano giunti a firmare una petizione per chiedere al Comune di alzare il muro di cinta dello stesso cimitero. Il motivo: di notte, dai piani superiori degli edifici circostanti, si scorgevano tutti i lumini e tutti i sepolcri, ed il fatto destava particolare impressione negli inquilini. Non solo: gli abitanti del quartiere volevano che fosse completamente schermato anche il cancello del cimitero, perché, essendo a sbarre, lasciava intravedere anch’esso tombe e loculi all’interno…

Da notare, per comprendere l’abisso culturale che ci separa dalle usanze funebri del passato, che fino al XVII secolo, secondo quanto attesta Aries nei suoi saggi, i cimiteri erano invece luoghi di asilo, spesso comprendevano anche abitazioni e commerci (botteghe artigiane, ambulanti, ecc.); erano insomma teatro di  quasi ogni espressione della vita quotidiana, salvo alcuni interdetti clericali (che riguardavo essenzialmente il divieto di spettacoli).

La Morte, oggi, è invece ormai bandita nel ghetto.

Abbiamo già ricordato come fino alla metà dell’Ottocento, ed ancora di più nelle epoche precedenti, la morte avesse una dimensione ed una partecipazione pubblica.

Fra noi, contemporanei, della morte invece si parla sempre meno, e sempre con maggiore imbarazzo. Malvolentieri. E nel silenzio, sono maturati in pochissimi anni molti cambiamenti radicali, anche negli usi e costumi della nostra stessa comunità. Cambiamenti che tendono ad estraniarci sempre di più dall’idea della morte, ed a separarci sempre di più da tutti gli aspetti materiali ed esteriori che ci parlano di essa.

Fino agli Anni Sessanta, la maggior parte dei decessi avveniva nelle abitazioni private. Nel momento del trapasso c’era quindi un contatto fisico ed emotivo, spesso anche prolungato, dei congiunti con il morente (in qualche forma sopravviveva, insomma, l’antico rituale della morte “corale” ed  “aspettata”). Certo il dolore non era per questo minore, ma la ricorrenza di questi episodi luttuosi nell’ambito familiare serviva a dare una dimensione più naturale della morte anche alle generazioni più giovani.

Così come, ricollegando, sempre all’interno dell’habitat familiare, l’evento della morte a quello delle nascite (anche queste in passato avvenivano sovente fra le mura domestiche) si finiva per vedere entrambe le situazioni su un piano psicologico più equilibrato.

Oggi si nasce e si muore per lo più negli ospedali. Questo fatto ha prodotto un certo distacco fra le esperienze individuali e certi eventi naturali. Le generazioni più moderne sono forse meno preparate delle precedenti ad “assorbire” un episodio luttuoso nella sfera dei propri affetti. Forse c’è meno capacità di comprensione; è infatti sempre più frequente il caso di persone, anche di età matura  – 20, 30 anni, talvolta anche 40 – che non hanno nemmeno mai  “visto” un morto.

Anche per questa ragione, per non acuire la traumaticità di certi fatti, la tendenza predominante oggi è quella di ridurre al minimo indispensabile la contiguità con i propri estinti. E così tutto si svolge più in fretta. Tutto si “rimuove” più in fretta.

Una volta, ad esempio, il funerale consisteva in una lunga processione a piedi. Oggi la norma è quella di effettuarlo frettolosamente in auto. Anzi, se qualche tradizionalista volesse accompagnare un proprio estinto a piedi fino all’ultima dimora, dovrebbe richiedere una speciale autorizzazione al Comune.

Senza che molti se ne siano accorti, senza che nessuno vi abbia riflettuto, vecchie consuetudini sono irreparabilmente tramontate.

Una volta, per fare un altro esempio, venivano rispettate certe “regole-non-scritte” per il lutto, la sua durata, la sua esteriorizzazione (l’abito nero, oppure dopo qualche giorno una semplice fascia nera al braccio, od un bottone nero all’occhiello: ancora negli anni Cinquanta si andava al lavoro con questo abbigliamento “del dolore” che veniva socialmente compreso e rispettato da tutti). Oggi praticamente nessuno ci si adegua più.

Una volta la visita dei congiunti ai propri cari sepolti nei cimiteri registrava una certa frequenza. Oggi le visite alla Certosa si sono alquanto diradate. L’aspetto più appariscente di questa disaffezione è costituito dal fatto che i fiori di plastica stanno soppiantando quasi dappertutto quelli naturali, che richiederebbero una maggior assiduità.

Poche opere di bene. E nemmeno fiori: la negazione della Morte ai giorni nostri è davvero totale. Quasi grottesca.

Eppure il Novecento, il cosiddetto “Secolo Breve”, si è dissetato di Sangue e si è cibato di Morte quanto mai nessun’altra epoca prima. Due guerre mondiali. Infinite guerre locali (dal 1945 ad oggi, quasi 400 come segnala il polemologo Luigi Bonanate). Infinite stragi. Epidemie antiche (si pensi solo alla famosa “influenza spagnola” che assommò milioni di lutti a quelli della prima guerra mondiale) e implacabili Morbi moderni (si pensi all’Aids ai tumori dovuto al fumo, all’inquinamento, ecc.).

Come può un secolo che ha convissuto così intensamente con la Morte, perdere quasi totalmente la capacità di comprenderla?

La risposta è forse proprio nella forma “bulemica” che ha assunto la Morte in questo secolo: continuamente data in pasto, e continuamente rigettata, migliaia, milioni di volte. E proprio come avviene negli individui affetti da patologie psicologiche come l’anoressia e la bulimia che negano a sé stessi ed agli altri la propria malattia, così la società moderna ha finito per negare “un senso” alla Morte. E ne ha fatto un tabù.

 

IL NUOVO TABU’  

Il già citato studioso della Morte nel Mondo Occidentale, Philippe Aries, spiega infatti che “la Morte ha rimpiazzato il sesso, come principale tabù della nostra società!”.

Certo, come il sesso, non può essere rimossa dalla natura umana. Ed allora la sua sublimazione, la sua negazione, avviene attraverso la sua massiccia sovraesposizione.

Una sovraesposizione però essenzialmente “virtuale”, perché se si mostrasse o parlasse con altrettanta intensità del vero volto della Morte (fisico e spirituale) il tabù verrebbe infranto, e la società dovrebbe insopportabilmente misurarsi con il suo “vuoto” di valori.

La Morte “vera” viene nascosta (negli ospedali, negli ospizi). Quella esposta fino all’ossessione è solo la controfigura della Morte, il suo “simulacro” cinematografico e televisivo, prodotto e riprodotto su scala industriale.

Abbiamo detto prima che da quando non si muore più “in famiglia”, raramente un giovane ha contatti fisici, reali, con la Morte di un proprio caro. Questo però non toglie che lo stesso giovane, grazie alla televisione, prima di aver terminato le scuole elementari, assista in media a ben 8mila omicidi ed a 100mila atti di violenza (come è riportato, nella raccolta di saggi “Cattiva Maestra Televisione” di Karl Popper, John Condry e Charles S. Clark).  Con una simile continua falsificazione e dissacrazione della Morte, dai telefilm ai  cartoni animati, può non stupire il fatto che il medesimo bambino non rimanga poi impressionato più di tanto quando la Morte, quella “vera” e drammatica di esseri umani reali, affiora crudamente nelle immagini di qualche Telegiornale.

Per quel bambino è quasi impossibile percepire la differenza fra realtà e finzione della Morte.

Il dato statistico è riferito in questo caso agli Stati Uniti, dove solo nel 1991 vi sono stati 25mila omicidi, dove gli assassinii aumentano in percentuale  sei volte più rapidamente della popolazione, dove i bambini restano incollati davanti al televisore per una media di 27 ore alle settimana (con punte di 11 ore al giorno nei quartieri più degradati delle grandi metropoli).

E’ facile intuire che in queste condizioni si può perdere sia il senso reale della Morte, ma anche la percezione del valore reale della Vita (dando meno valore alla Vita, non percependo più il senso della Morte, diventa certamente “più facile” uccidere, anche per pochi spiccioli, o per la lite più banale…).

Diceva Pascal: “E’ più facile accettare la Morte senza pensarci, che pensare alla Morte”. L’Uomo Moderno ci sta indubbiamente riuscendo. Ma abbiamo visto a quale caro, carissimo prezzo.

Estromettere la Morte significa perdere la comprensione della Vita. Significa essere accecati dal sole come la nottola di Minerva. Significa non vincere mai, non perdere mai, nemmeno pareggiare mai, in una partita senza “risultato finale”, una partita che non ha alcun senso giocare.

Vivere senza la Morte, significa solo apparentemente “vivere”. E la Vita nell’era della televisione e di internet sta diventando effettivamente sempre più “virtuale”.

Lo aveva predetto fin dagli albori del “villaggio globale” il filosofo Marshall McLuhan, osservando come man mano che le telecomunicazioni diventavano sempre più rapide, rallentavano gli spostamenti reali delle persone.

Robert Putnam parla addirittura di “solitudine elettronica”: di “demos” indebolito da troppa realtà virtuale.

Gli studi di Putnam, riferiti sempre alla situazione americana, evidenziano infatti una preoccupante e crescente “perdita di comunità”, una continua erosione di “capitale sociale” inteso come social connectedness, neighborliness e social trust  (allentarsi dei legami di vicinato e dei vincoli di collettività).

E’ indubbio, commenta a tal riguardo il sociologo Giovanni Sartori, che stare ore ed ore di fronte al video, della televisione o del computer, ci “chiude” in casa, ed anche ci “isola” in casa.

La televisione ed internet creano una “folla solitaria” anche fra le pareti domestiche. Le relazioni umane non hanno più calore, sapore,  non hanno più odore. E fin troppo ovvio che in questa situazione trova ben poco spazio la condivisione del senso della Vita e della Morte che avevano le società passate.

 

LE FACOLTA’ PERDUTE

Questa decadenza del nostro capitale “socialmente condiviso” di relazioni e di valori esistenziali, implica altre due importanti “perdite”:

  • Da un lato la perdita, o meglio l’atrofizzazione della facoltà di attendere e presagire la propria morte, facoltà che pare (da innumerevoli testimonianze letterarie) fosse alquanto diffusa fra le antiche generazioni.
  • Dall’altro lato si rischia di spezzare un filo prezioso, quello che tiene unite le polarità dell’”homo duplex” descritto da Emile Durkheim (che ha condotto studi sociologici approfonditi sulle tendenze suicide): l’uomo che si muove fra gli opposti poli della sua natura individuale o profana, e della sua natura sociale o sacra.

Senza quest’ultima, secondo Durrkheim, l’individuo lasciato a se stesso – alla solitudine dei suoi unici fini individuali – tenderebbe inevitabilmente all’annullamento ed alla disgregazione. In altre parole: il profilo di una specie di “suicidio universale”.

Sulla capacità dei “vecchi” d’un tempo di presagire la morte, interiormente o attraverso “segnali” esterni (come apparizioni, suoni particolari, eccetera), si è scritto molto, in molte epoche ed alle più diverse latitudini.

Finchè è stata  comunemente accettata, pare che la Morte avesse sottoscritto una specie di  patto con gli uomini. La morte comune, la morte normale – osserva ancora Philippe Aries – non coglieva a tradimento, nemmeno quando era accidentale, conseguenza di una ferita, nemmeno quando era l’effetto di una eccessiva emozione.

Quasi tutti i  cavalieri della Chanson de Roland o della Tavola Rotonda presagiscono l’ora della loro morte. Anche monaci e preti avevano spesso un nitido presentimento della loro fine imminente, ed in base a questo regolavano i loro ultimi uffici per i fedeli. Anche contadini ed uomini comuni disponevano di segni premonitori della propria morte. Spesso si trattava di segni naturali, della vita comune. Talvolta questo presentimento era rappresentato da visioni di anime di altri defunti. La linea di demarcazione fra naturale e soprannaturale – ribadisce Aries – era a quei tempi alquanto incerta; anche se con il passare degli anni la credenza nei fantasmi e le apparizioni dei defunti, pur non venendo del tutto contestate, finirono per essere ammantate di superstizioni popolari. E come tali cessarono di essere considerate “avvisi” benevoli (soprattutto per consentire al morituro di preparare la propria anima per l’aldilà), e cominciarono ad incutere un certo timore.

Lo conferma, all’inizio del Seicento, un scritto di Gilbert Grimaud: “Rende ancor più grande questa paura la credenza popolare, che risulta anche dagli scritti di Pietro abate di Cluny, che tali apparizioni siano segni di morte per chi ne fa l’esperienza”.

Il Settecento diventa ancor più disincantato su queste premonizioni, ma continua sostanzialmente a crederci, se, come riporta ancora Philippe Aries, proprio all’inizio del Secolo dei Lumi si diffondevano racconti di questo genere:

“La sua morte (Mme de Rhert) non è meno stupefacente della sua vita. Da sé ha fatto allestire la sua cerimonia funebre, parar di nero la casa,  e dire in anticipo delle messe per il riposo dell’anima sua; da sé ha provveduto a far celebrare l’uffizio dei morti, e tutto senza essere malata. Quando ha finito di dare le disposizioni necessarie per risparmiare al marito tutte le cure di cui sarebbe gravato senza la sua previdenza, è morta nel giorno e nell’ora che aveva indicato”.

Anche il contadino di La Fontaine presagisce la morte, tenta di gabbarla, ma alla fine rassegnato gli si consegna. Anche Don Chisciotte avverte l’approssimarsi della Morte e rinsavisce dalla sua sognante pazzia per consegnarsi degnamente ad Essa.

Anche i “mugiki”, i contadini russi, di Tolstoj, sanno presagire ed affrontare dignitosamente la loro fine.

Noi, uomini del XXI secolo, avendo rinnegato la Morte, abbiamo evidentemente rotto il patto che ci consentiva di riconoscere i suoi preavvisi. Non potendole però sfuggire, cerchiamo egualmente di giocare d’anticipo, affidandoci alle più moderne tecniche di diagnosi, a strumenti che la possono scoprire quando ancora si nasconde, piccolissima quasi invisibile,  nelle nostre cellule più recondite, non ancora sufficientemente potente per imporci la sua volontà; ci affidiamo alla ricerca genetica, per scoprire, anzitempo, nel romanzo “giallo” dei nostri geni e dei nostri cromosomi, chi sarà il nostro assassino biologico, quando e dove colpirà.

Disgraziatamente però nemmeno la scienza sembra poterci dare certezze: le sue premonizioni si riducono il più delle volte a semplici probabilità. Qualche volta possono servire a ritardare l’incontro con la Morte, anche di parecchi anni, ma mai a raggirarla del tutto.

L’uomo moderno, quando finalmente si ferma a riflettere sulla Morte, si accorge di quanto superficiale e infondata è la sua presunzione di poterla battere con i propri “scacchi elettronici” (probabilmente funzionerebbero meglio ancora oggi i vecchi scacchi di legno dello stanco cavaliere del “Settimo Sigillo”). L’Uomo si accorge che quella partita non potrà mai vincerla, ed allora chiede solo tempo, ancora tempo, e quando non c’è più tempo, chiede una benda per non vedere, per non sentire, per non soffrire.

All’uomo moderno che non sa più “prepararsi a morire”, è rimasta un’estrema illusione: l’ideale della “morte dignitosa”, la speranza di potersi spegnere rimanendo il più possibile coscienti, di non essere troppo trasfigurati fisicamente e moralmente dal dolore e dalla malattia, di avere il tempo di pronunciare solennemente le nostre ultime parole, in altri termini di poter “dosare” e “gestire” la propria morte (assistiti ovviamente dalla medicina moderna).

Purtroppo anche questa si rivela essere nella maggior parte dei casi una prospettiva del tutto illusoria, come ci svela il medico americano Sherwin B. Nuland in un saggio dal titolo significativo “Come muoriamo”.

In questo saggio, Nuland ha preso in considerazione la maggior parte delle patologie fatali per l’uomo: arresto cardiaco, ictus, cancro, aids, morbo di Alzheimer, anche la cosiddetta “morte di vecchiaia” e quella per traumi rovinosi (incidenti stradali, cadute, ecc.).

Quasi mai, conclude il clinico americano, la morte ci concede il privilegio di conservare tale dignità fino all’ultimo. Quasi sempre la  morte ci dileggia rendendoci goffi, deformi, inebetiti… quasi a volersi vendicare con questo estremo affronto, dello scherno e dell’irriverenza con coi l’abbiamo trattata (e negata) durante la nostra vita.

 

IL SUICIDIO UNIVERSALE

La negazione sociale della Morte, implica la negazione della Vita, e senza valori esistenziali largamente condivisi non può esistere nemmeno una società. Senza una società, anche l’individuo può smarrire la sua stessa ragione di esistere. Come avverte il già citato Emile Durkheim, si rischia in tal modo una sorta di “suicidio universale”.

Durkheim, che ha studiato a fondo le tendenze suicide e le loro cause, è infatti giunto a stabilire una “legge sociologica generale” in base alla quale “il suicidio varia in ragione inversa al grado di integrazione dei gruppi sociali di cui fa parte l’individuo”.

Così lo stesso studioso francese rileva (op. cit. ) “come il suicidio è più diffuso nelle città che nelle campagne; che gli uomini si suicidano in media quattro volte più delle donne; gli anziani più dei giovani; che la follia è più frequente fra gli ebrei, mentre la loro tendenza al suicidio è scarsissisima (proprio perché costituiscono gruppi molto compatti, come volevasi dimostrare con la “teoria sociologica del suicidio” sopra enunciata).

Se il suicidio è poco frequente fra gli ebrei, lo è di più fra i cattolici (che hanno una sufficiente solidarietà di gruppo fra di loro), ed ancora maggiore fra i protestanti (divisi da un fortissimo senso individualista e concorrenziale).

In generale il suicidio crea più vittime fra le classi colte ed agiate; meno fra le classi più povere. Ed è inoltre maggiormente frequente nei paesi in cui vi sono minori casi di follia”.

Il suicidio sembra dunque attestare una lucida disperata negazione della Vita, e solo apparentemente sembra ricercare un senso nella Morte.

In realtà solo una vita intensamente e consapevolmente vissuta – con l’alternanza delle sue gioie e dei suoi dolori, con i suoi successi ed insuccessi, con i suoi sogni e le sue delusioni, ed anche con l’accettazione delle malattie e delle sventure – può dare e trovare un senso nella Morte.

 

VERSO LA LUCE

In fondo è lo stesso percorso che compiono i Figli della Vedova, attraverso gradi progressivi di un viaggio iniziatico che rappresenta la più esemplare metafora della Vita e della Morte.

Il primo grado: l’Apprendista. Rappresenta la prima della fase della vita, quella in cui si acquista la sensibilità e la consapevolezza dell’esistenza, ma non si ha ancora la capacità di esprimerla (l’Apprendista non sa ancora parlare, ma acuisce e coltiva gli altri sensi: impara ad ascoltare, impara a vedere; impara a pensare; impara a tacere).

Il secondo grado: il Compagno. Rappresenta la seconda fase della vita, quella in cui si acquisisce la Scienza (oltre la Coscienza) e la Ragione (oltre la Sensibilità), che portano alla conquista della parola e della capacità di esprimere il proprio “io”, e di relazionarsi con gli altri.

Il terzo grado: il Maestro. Rappresenta la terza fase della vita, quella che contempla più da vicino i misteri della Morte. Quella in cui l’uomo coglie finalmente il senso della propria esistenza terrena e del proprio destino nella Luce Eterna.

La nascita (quando abbiamo emesso il primo vagito, e quando abbiamo bussato per la prima volta alla porta del Tempio per chiedere la Luce) ha rappresentato la nostra prima Iniziazione Virtuale; solo la morte (quando cesserà il nostro percorso terreno, e passeremo nell’Oriente Eterno) rappresenterà la nostra Iniziazione Reale.

Solo allora, infatti, potremo vedere finalmente la vera Luce. E forse non è un caso che in tutti i racconti di risvegli dal coma, o da morti apparenti, venga descritta una grande Luce bianca, meravigliosa, piena di pace, piena di gioia…  volgendo lo sguardo della nostra Anima verso Oriente, verso Gerusalemme, come facevano gli antichi sul loro letto di morte.

A:. Mu:.

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BIBLIOGRAFIA

Philippe Aries   – Histoire de la mort en Occident

Philippe Aries – L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi (Laterza).

Christopher Knight, Robert Lomas – La chiave di Hiram (Oscar Mondatori)

Paolo Collo, Darwin Pastorin – Calcio e Letteratura.

Francesco Alberoni – Innamoramento e Amore (Feltrinelli)

Sherwin B. Nuland – Come moriamo (Oscar Mondatori)

Emile Durkheim – Il Suicidio (Classici BUR)

Karl Popper, John Condry, Charles S. Clark – Cattiva maestra televisione (I libri di Reset – Donzelli Editore).

Andrea Musi – “Un giorno, almeno un giorno, per ricordarsi di loro”. La Piazza di Ferrara (1984)

Giovanni Sartori – Homo Videns (Sagittari Laterza)


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