SEGRETI

Aristotele ammoniva: “Colui che comunica i segreti della Natura e dell’Arte rompe il sigillo celeste e molti mali seguono l’uomo che rivela i segreti”. Già nel CVII secolo a.C. si diceva che “colui che sa può mostrare a chi sa; ma colui che sa non deve dimostrare a chi non sa!”. E Bacone, in tempi più moderni, ribadiva: “Tieni più segreto questo segreto, rivelando il segreto se ne diminuisce la forza. Il volgo non può comprenderne nulla”. Ai massoni d’oggi resta un dubbio fondamentale: “Il segreto è quello che non dico, o quello che non so?”.

inserito il 11 05 2011, nella categoria Esoterismo, Tavole dei Fratelli

Tavola del fr:. D:. Z:.

 

Cari fratelli, appena posto il titolo di questo breve lavoro, ho pensato quali e quanti significati potesse avere il termine “segreto’; per quello che mi riguarda è sempre stato una di quelle parole che ho, forse superficialmente, ritenute univoche, di fatto, un sostantivo che non consentisse particolari interpretazioni su piani differenti: come al solito la superficialità è grande ingannatrice.

Infatti, appena ho iniziato a meditare sul significato di questo termine, mi si è posto un primo problema e cioè se il segreto sia “quello che non dico”, ovvero “quello che non so”.

A questo punto, appreso che già all’inizio del mio cammino, mi si presentava un bivio, ho voluto verificare la radice latina della parola, per trarne un qualche aiuto, ed ho scoperto, con stupore, che il termine deriva dal latino secretum, il cui significato è “mettere da parte, separare”.

Mi sono anche accorto che è una parola ambigua, che può avere, pur mantenendo lo stesso significato, valenza e connotazioni positive o negative, a seconda della prospettiva in cui viene letto.

Quello che intendo è che la doppiezza del termine la si può verificare in ogni situazione contingente, basti calarla in un ambiente sociale per verificarne le risultanze: chi richiede il segreto ne è un fervido sostenitore, chi ne è tenuto all’oscuro, seppure ignaro, lo avverte in senso negativo, e ne ha timore.

La diffidenza che consegue al non essere “messi a parte” della conoscenza degli altri soggetti del gruppo diviene una malattia che segue l’uomo dalia notte dei tempi, da quando le prime scoperte furono appannaggio di pochi, siano state, queste, naturali, spirituali, o sociali.

 Questa parola, mi sono detto, non può avere solo connotazioni negative, anche in considerazione del fatto che illustri pensatori ne hanno tessuto le lodi ed elogiato le qualità, scagliandosi prontamente contro chi avesse violato il “segreto”.

Sostiene Aristotele “colui che comunica i segreti della natura e dell’arte rompe il sigillo celeste e molti mali seguono l’uomo che rive/a i segreti” (Liber Secretorum); “lo ti scongiuro nel nome del Creatore del  Mondo di non mostrare questo libro alle persone sciocche e superficiali”, scrive Alberto Magno nel suo Trattato “De Alchemia”.

Certo è che le motivazioni, che hanno generato la necessità alla pratica del “segreto”, sono lapalisssiane: è fuor di dubbio che la conoscenza conduca al potere ed il primo scopo del regnante (ritengo, oggi) poco illuminato, è sempre stato quello di tenere la moltitudine dei suoi sudditi all’oscuro del proprio “segreto”.

Comunemente questo atteggiamento è biasimato e biasimevole, e per la nostra mentalità democratica, a volte, è ritenuto ripugnante: come vorremmo che la conoscenza fosse il “pane” distribuito a chiunque lo desiderasse. Le nostre scuole ne sono un esempio, quando, addirittura, riteniamo giusto ed opportuno imporre agli Studenti la conoscenza, sia essa storica, letteraria, o scientifica, a volte anche politica.

Ma già in testi antichissimi, risalenti al XVII° sec. a.C., si diceva che “colui che sa può mostrare a colui che sa, ma colui che sa non deve dimostrare a colui che non sa”,  e ribadisce Bacone nell’Opus Tertium: “tieni più segreto questo segreto, rivelando il  segreto se ne diminuisce la forza. Il volgo non può comprenderne nulla”.

Il problema pare, quindi, spostarsi su di un altro livello di discussione: come scegliere chi è degno di conoscere ed apprendere.

Noi dovremmo essere Maestri di questa fine arte, posto che il Nostro Ordine, per secoli, ha fatto della segretezza un proprio pilastro, fosse questo un “segreto” necessitato da persecuzioni politiche, ovvero, piuttosto, il “segreto iniziatico”.

In particolare, il segreto, quello iniziatico, è uno degli aspetti preminenti della Nostra struttura: la partenza del percorso della iniziazione, mi pare essere fondato proprio su questo vincolo assoluto.
D’altronde come potrebbe la “pietra grezza” conoscere dei segreti del cammino verso la luce, senza ricevere via, via, gli insegnamenti prefissi, solo al grado raggiunto: estratta dalla cava, la pietra attende di essere sgrossata, rappresenta la natura umana allo stato bruto, ma perfettibile, e solo mediante un lento e faticoso lavoro fra le Colonne del Tempio, potrà essere idonea a divenire un “mattone” utile alla costruzione del Tempio.

Per questo motivo l’iniziato, solo dopo avere ricevuto l’adeguato insegnamento potrà apprendere il “segreto” del grado successivo, legato com’è al livello di comprensione, di realizzazione e di risveglio della coscienza di ciascuno. Diversamente, l’iniziato nemmeno avrebbe gli. Strumenti per comprenderne il significato.

Ma il “segreto iniziatico” può offendere e limitare la nostra integrità personale di uomini liberi e tolleranti?
Per rispondere vorrei ricordare che Noi, da profani, abbiamo bussato alle porte del Tempio, ed in quel preciso istante abbiamo scelto ed accettato di non conoscere il “segreto” prima di essere accolti all’interno del Nostro Ordine ed avere prestato il noto giuramento.

Allora, non abbiamo certo ritenuto che questo fatto potesse essere lesivo della nostra integrità ed autonomia.
Per quello che mi riguarda, ero perfettamente consapevole, nel Gabinetto di Riflessione, che la conoscenza dovesse essere appresa per gradi; è ciò che intendo per viaggio iniziatico e ritengo che sia proprio questo viaggio il significato e la giustificazione dell’esistenza del “segreto”, di fatto, la condizione della appartenenza all’Ordine.

In questo breve excursus, come potete vedere, cari Fratelli, sono emersi innumerevoli interpretazioni di questo termine, a volte negative, ma anche positive e, pure, necessarie.
Alla fine di questa mia tavola, mi pare sia opportuno discernere fra i vari significati ed accezioni del termine”segreto”, anche in relazione al fatto che si tratta di appartenenza ad una Fratellanza.
Infatti, quando si dice di “appartenere” (contrario, cioè, di mettere a parte), si rappresenta il desiderio di essere accettati e riconosciuti in modo paritario all’interno di un gruppo.

Perché questo possa avvenire compiutamente, deve riconoscersi, anzitutto, come prima condizione, l’affinità alla comune conoscenza, di fatto un atteggiamento che consenta di apprendere da una fonte comune e di far parte di un unico genere.

Ma questa qualità può essere ritenuta il passaporto sufficiente per essere messi a parte di ogni “segreto” di una comunità?
Per fare un facile esempio: il segreto di Stato viene ritenuto di buon grado accettabile e conveniente, addirittura, alla comunità intera, sul presupposto che la conoscenza dei fatti secretati possa risultare dannosa. Si tratta, quindi, di un giudizio di bilanciamento fra la generica utilità di “conoscere”, ed il danno che verrebbe arrecato dal sapere la realtà degli eventi.

Non concordo, però, nella semplice traslazione di questo giudizio da una ampia e generica società nazionale indifferenziata, ad una Comunità scelta, come è il Nostro Ordine.
In cuor mio credo che, per rispondere al quesito posto poco prima, non debbano esistere segreti di alcun genere fra le mura del Tempio, fatte salve certamente le conoscenze proprie di ogni Grado, perché le fondamenta che ne sorreggono le Colonne sono la Conoscenza e l’Apprendimento, e perché mi sentirei di tradire il giuramento iniziatico prestato, qualora non- rendessi partecipe un mio Fratello della mie conoscenze e dei miei dubbi, affinché esso possa verificarle, criticarle e scegliere, in cuor suo, se farle proprie o meno, perché, ritengo, “quello che non dico, non so”.

D:. Z:.

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Nell’illustrazione di testa: Aristotele

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